Buio. Una voce rassicurante ci accoglie nel suo ventre materno mentre le quinte svelano un corpo di donna appeso a un cappio. Lentamente il buio si dirada, la voce si zittisce: due bambine e una cantilena danno inizio a Barbalù – primo studio. Roberta Spaventa, regista e drammaturga di Peso Specifico Teatro, nel costruire questo spettacolo riflette su quella che è probabilmente una delle fiabe più intriganti della tradizione, focalizzando la sua attenzione sui punti cardine della storia: la curiosità, la donna e il suo rapporto con l’uomo.
Ma il tutto è depurato dalle letture misogine, scardinato dagli stereotipi.
Il racconto diventa l’occasione per indagare la crescita della donna e il modo
in cui questo avviene: il riconoscimento della propria identità attraverso la
dimensione tattile, lo sviluppo e la curiosità per l’altro fino ad arrivare
alla definizione del carattere e al rischio della spersonalizzazione di fronte
all’uomo. La canzoncina che all’inizio si alterna al pianto e al vagito poi si
disperde in sussurri, parole scoperte, piccole frasi che accompagnano nella
scoperta del sé e dell’altro. Poca scenografia serve a tutto questo: stracci
bianchi penzolanti dal soffitto e un’apertura sullo sfondo che inquieta. In
essa si intravede la donna impiccata e quella stessa apertura ospiterà il
cammino speranzoso di una giovane donna sorridente in attesa di essere amata,
toccata baciata che nel suo movimento trasmuta sul suo volto l’emozione; la
maschera di gioia diventa terrore, quasi che il continuo entrare e uscire da
quell’antro le permetta di prevedere quel che potrà succedere. Ma è anche la
porta d’ingresso per il maschio, l’uomo che non chiede ma ottiene: Barbablù.
Sono belli i corpi delle due attrici, Francesca Iacoviello
e Cristina Carbone: i loro movimenti fluidi, sensati guidano lo spettatore nel
cammino del personaggio, nell’acquisizione della parola subito diretta e chiara
che però si concatena in una struttura drammaturgica ricca, dove ogni frase ha
un suo perché da ricercare nei vari tasselli che portano alla nascita dello
spettacolo. La battuta si lega al corpo testuale, alla favola di Barbablù ma
non può essere compresa se si ignora il lavoro di interpretazione e di costruzione
psicologica che c’è dietro, e così si
arriva a capire come l’azione delle due donne in scena punta a costruire un
cammino esemplare indagato nelle sue possibilità: l’identità femminile che si
definisce lungo un percorso di continui confronti con l’ambiente che la
circonda, i giudizi e i contrasti che lo animano; la sua lotta per la consapevolezza
che a volte viene messa a dura prova.
L’una sorride ingannandosi, l’altra subisce dimenandosi…
Arrivano a questo le due attrici: arrivano a essere
esattamente questo. La Iacoviello lavora con il corpo, con le spigolosità
ritrovate attraverso le posture, con l’accentuazione di quell’indicazione
testuale: “andare di naso” che guida il capo e la direzione del gesto, mentre
la Carbone impegna la mimica facciale, il volto come mappatura estrema
dell’emotività e tutto il corpo si addolcisce: il sorriso spinge una verso la
disperazione e, al contrario, il cinismo porta l’altra a girare in tondo. È un
cammino lineare, pulito, chiaro: da corpo unico, le due “bambine” cercano punti
di fuga verso l’esterno, verso l’altro. Ritrovano il contatto fisico per
esplorare il proprio essere e il proprio divenire, e rimangono colte dallo
stupore quando una striscia di raso rosso esce fuori dal corsetto, attraversa
il petto e rotola giù (rosso colore del sangue, come rossa sarà la macchia
sulla piccola chiave e sangue è quello che copre il pavimento nella piccola
stanza di Barbablù);
ecco il punto che volta pagina, il cambiamento che preclude alla definizione
del carattere. Ancora il contatto guida questo riconoscimento ma si è perso il
candore dell’innocenza, entra in scena il corpo nella sua materialità, nella
sua sensualità e anche il carattere ora vuol venire fuori.
La femminilità come habitus mentale da adottare,
indossare: una gonna ampia attira l’attenzione delle due attrici in scena, le
zittisce e porta la loro azione a concentrarsi nella scoperta del nuovo. Indagano,
cercano e arrivano a scoprire dolci parole d’amore che si incastrano con piccoli
stereotipi dell’essere donna: il Cantico dei cantici, riportato in piccoli
foglietti, muove le labbra delle giovani fanciulle e le guida all’adozione della nuova identità.
Le due indossano la gonna e danno inizio al dialogo, si scoprono nei loro
caratteri.
La spigolosità dell’una che riconduce alla realtà (alla sua
realtà) il pensiero emotivo dell’altra: una che sputa una banana divorata con
foga e l’altra che passa uno straccio sul suo pattume, ribellandosi, cercando
di dare corpo ai suoi pensieri e di farli per lo meno ascoltare se non proprio
accettare.
Non si dimentichi però che è pur sempre la favola di Barbalù
a fornire la storia. Lo spettatore è portato a tralasciare quest’aspetto, nel
seguire la crescita di queste due figure così diverse ma nello stesso tempo
speculari, e rimane di sasso di fronte alla figura di Santo Marino (Barbablù)
che entra in scena con passo lento e sguardo sicuro, imponendo la sua presenza
alle due ormai donne che tornano ad automatizzarsi e a muoversi con passo
cadenzato, regolare e coordinato, seguendolo pedissequamente. Lo spettatore si
ritrova stupito a chiedersi il perché. Perché ora, perché così: è una presenza
che rompe il dualismo, spiazza e apre la storia a chissà quali interpretazioni,
letture ed evoluzioni. Lascia con il senso del non-finito e si fa fatica ad
alzarsi dalla poltrona mentre torna la domanda: ma finisce così? No, non
finisce così. Quello presentato al Teatro Tempio è uno studio il cui termine è uno
spettacolo. E uno studio non può far molto altro, se non mettere sul campo i
materiali su cui lavorare per arrivare al termine, alla fine. Quindi, lo
segniamo in agenda: a marzo si torna al TeTe, a vedere se davvero finisce così.
Barbablù- primo studio. Visto al TeTe - Teatro Tempio di Modena,
il 17 novembre 2013 presso: Ogni mille passi doppi
Elvira
Scorza
Nessun commento:
Posta un commento