Nanni Garella porta avanti da anni una proficua collaborazione con Arte e Salute, ONLUS di Bologna che da modo a persone in cura psichiatrica di esprimersi sulla scena. Dopo il grande successo ottenuto al Napoli Teatro Festival 2013, ripropone a Bologna la sua messa in scena de La Classe di Tadeusz Kantor (Teatro delle Moline, dal 7 novembre al 21 novembre).
La classe morta, del 1975, è la pièce più celebre e di maggior successo del poliedrico artista polacco (che parallelamente al teatro si espresse anche nelle arti figurative). A questo proposito una prima annotazione è che l’allestimento di Garella interpreta efficacemente la dimensione pittorica dell’autore e la rappresentazione vista alle Moline si trasfigura con grande efficacia in una sorta di installazione perpetua viva, accesa e fortemente espressiva in ogni suo ‘fotogramma’.
Le luci soffuse disvelano dall’oscurità un’aula
scolastica: un’ordinata corte di banchetti vecchio stile, angusti quanto basta
per accogliere scolaretti compunti e minuti, come nelle memorie in bianco e
nero di genitori e nonni.
Ma quelli che entrano in scena, goffamente
disciplinati nei loro vestiti scuri e formali non sono bambini. Sagome polverose
dal volto bianco la cui età non dovrebbe più avere niente a che fare con
banchi, sussidiari e mele regalate alla maestra.
Sicuramente il signore in fondo era, al
tempo, il primo della classe. Ostentatamente ligio, motivatore dell’altrui
voglia di imparare ed eternamente intento a rimproverare con puerile e garbata
dolcezza lacune e svogliatezze.
C’è la bella che tutti i maschietti desideravano provandone allo steso tempo soggezione, consci che avrebbe avuto il potere di chieder loro qualsiasi favore, compreso il far copiare il famoso compito in classe.
C’è la ragazza carina ma insicura, che
timidamente cela dietro a una cortina di capelli la sua vera emotività e forse
qualche brufolo di troppo. E c’è l’impassibile dignitoso sempliciotto che se ne
prende silenziosamente cura con zelo e devozione, incoraggiandola a esprimersi
e accompagnandola a braccetto all’uscita dalla classe.
Queste sagome così vere e familiari sono
forse il ricordo della loro stessa vita conclusa.
Situazioni, dialoghi e dinamiche di
interazione fra i personaggi si ripetono ossessivamente secondo uno spartito
che prevede solo piccole variazioni sul tema.
Intrappolati nella propria inscalfibile
ripetitività, gli eterni scolaretti cercano autisticamente di sopravvivere non
tanto per non concludere il loro percorso quanto piuttosto nella vana speranza
di potervi trovare un finale differente.
Ritentare, rimediare a matrimoni falliti,
emanciparsi da tabù sessuali, generare una prole, soddisfare le proprie
ambizioni represse. Ma un’inedia endemica, o forse l’impossibilità stessa di
tornare indietro, li condanna a un esilio fatto di autismo compulsivo e di
impotente contemplazione di sé stessi.
Al cospetto del rogo sacrificale di ricordi
e rimpianti perpetrato dal resto della classe, appare quasi più serena la
presenza di un compagno caduto al fronte nella prima guerra mondiale che, senza
interagire con alcuno, inneggia e si atteggia da patriottico soldatino. Un
fantasma anch’esso, anch’esso forse inconsapevole della propria dipartita, ma privo
dell’angosciante senso di non finito che attanaglia gli altri. Morto pieno di
energia e ideali, li rivive in eterno con occhio acceso e movenze enfatiche.
L'unico personaggio a tracciare velatamente lo scorrere del tempo è il bidello, enigmatica presenza estranea e a tratti totalmente disinteressata agli spettrali frequentatori della classe. Non riconosce i decrepiti e tuttavia vivi fantasmi degli scolaretti, bensì gli immobili manichini che li raffigurano da bambini, forse perché custode della tomba della loro infanzia per sempre perduta. Nel finale riappare surrealmente mutato, forse a sottolineare la propria estraneità alla stasi di cui è spettatore.
Il valore aggiunto, nella messa in scena di
Garella sono indiscutibilmente gli attori di Arte e Salute, che stupiscono con
la loro convincente e coinvolta recitazione e calzano a perfezione i rispettivi
ruoli con i loro volti e corpi tanto autentici quanto espressivi. Persone
reali, reduci da un confronto difficile con la propria psiche, che grazie ad un
laboratorio di recitazione hanno avuto modo forse di esplorarsi più a fondo di
quanto sia possibile con le cure.
Malgrado tutto, una volta usciti da teatro,
non è l’inquietudine a prevalere. Non la paura che tutto stia andando troppo in
fretta o l’angosciosa sensazione si essere in ritardo per studiarsi,
migliorarsi o reinventarsi. La claustrofobica scena concepita da Kantor e ben
letta e interpretata da Garella e i suoi emoziona e turba, ma alla fine si
traduce in un monito sì severo ma quasi confortante. Finché si è vivi, ancora
si può scrivere nelle proprie vite. L’inquietante dubbio semmai è se si avrà la
forza di farlo.
Visto al Teatro delle Moline, il 21
novembre 2013
Sophie Claire Del Bianco
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