Il cappotto è uno spettacolo tratto da un racconto di Gogol’, adattato meravigliosamente da Vittorio Franceschi, anche attore protagonista. La storia ci illustra la vita di un povero copista che, nello sfondo della Russia ottocentesca, addattatosi con facilità alla rigida disciplina del suo lavoro, sembra trovare una felicità più vera e una possibilità di ascensione sociale grazie all’acquisto di un nuovo cappotto, per poi morire di crepacuore nel momento in cui esso gli viene rubato.
Una storia
realistica dai contorni grotteschi fantozziani, potremmo dire, anche se certo
viene prima Gogol’ di Fantozzi. La citazione del personaggio di Paolo Villaggio
non è così casuale, perché Franceschi nella sua magistrale interpretazione
sembra per certi versi ispirarsi allo stile fantozziano, nell’ossequio
esagerato ai suoi superiori, nella difficoltà di trovare le parole, in un
italiano tutto suo. Ma il personaggio di Akakij e tutto lo spettacolo in
generale, dalla messinscena alle musiche, alla capacità interpretativa di tutto
il cast che riesce a restituire una realtà sociale con vividezza, raggiungono
una commovente intensità poetica, mancante in Fantozzi, che trova il suo apice
nella poesia finale dell’ubriacone, dopo la morte di Akakij.
Lascia allora un
po’ di curiosità l’aggiunta delle due ulteriori battute finali, come a voler
ritornare un po’ sul sapore di commedia insito in tutto l’adattamento
drammaturgico e che il finale sembrava dimenticare nella sua cupezza. Lo
spettacolo dimostra nel complesso una qualità eccelsa, nel suo ritmo di
tragicommedia, in cui lo spettatore si affeziona ai personaggi, e in special
modo ad Akakij, con punte di surrealismo comico davvero geniali. La comicità
sembra esagerata e un po’ sbavata solo nel personaggio macchiettistico del
venditore di tessuti, ma si tratta solo di un dettaglio. Per il resto la
messinscena ha la capacità di conciliare l’attenta e minuziosa aderenza a una
precisa realtà sociale – anche nei costumi e nella scenografia minimalista, che
evoca le catapecchie russe e il freddo coi tre alberi scheletrici dello sfondo
– a un surrealismo notturno veramente evocativo, nell’atmosfera soffocante del
ministero dove lavora Akakij, la cui alienazione è resa emblematica nel
balletto dei suoi colleghi che lo circondano con le fruste.
In sintesi, uno
spettacolo magistrale, con un testo forte che il minuzioso lavoro di Franceschi
restituisce nella sua classicità, ancora valida ai nostri giorni. Secondo
Calvino, un classico è un libro che non finisce mai di dire qualcosa di veramente
necessario al suo lettore: ecco, la stessa massima può essere applicata a
questo spettacolo.
Visto all’Arena del Sole, il 10 novembre 2013.
Fabio Raffo
E gli altri interpreti, gli attori, come si sono comportati, come sono?
RispondiEliminaGrazie per il commento! Franceschi come dicevo è stato magistrale nella parte perché si è proprio calato dentro, e si vede il lavoro proprio di composizione del personaggio. Per gli altri attori non li ho citati nel dettaglio, ma li ho trovati molto bravi, redevano proprio una certa immagine che ci siamo fatti della russia di quel periodo: l'ubriacone, che poi si rivela essere un poeta, il vecchio burbero pellicciaio che litiga sempre con la moglie, anche lui alcolizzato, i colleghi viveurs e molto meno diligenti di Akakij, che anzi lo prendono in giro, offorno un affresco realistico, un buon quadro di quella realtà sociale. L'unica parte che stonava come dicevo è il venditore di tappeto, che mi sembrava cercasse in tutti modi il riso nel pubblico, forzando i suoi tratti caricaturali. Questo a mio parere!
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