Il sipario è aperto su un palco quanto mai scarno, se non pochi oggetti in centro fondamentali, tra cui il microfono e il podio da cui Ascanio Celestini terrà il suo discorso finale presidenziale. Delle voci di leader in varie lingue accolgono il pubblico, frastornato e spaesato dalla baraonda, a centuplicare il discorso sul potere mai buono (bisogna essere così coglioni per credere che esistano poteri buoni, diceva l’anarchico De André), che pervade tutto lo spettacolo.
Tra le vari voci, anche quella di Silvio Berlusconi, naturalmente: e naturalmente il riferimento al pregiudicato in questo giorno particolare non poteva né voleva essere evitato nei primi dieci minuti di spiegazione dello spettacolo e intrattenimento del pubblico da parte dell’attore-narratore-solista Celestini. Instaurata l’atmosfera cordiale e divertita nel pubblico, la prima frustata di dolorosa riflessione arriva dal discorso-ripetizione sui valori di sinistra pervertiti piano piano dalle logiche mostruose del potere, e solo lentamente lo spettatore si rende conto che lo spettacolo, il vero spettacolo, come continuamente promesso da Celestini, sta per iniziare. Esattamente quando l’attore, che dice di essere di sinistra, fa il saluto romano e dice “me ne frego”, si abbassano le luci e si fa palesemente, prepotentemente chiaro l’inizio dello spettacolo, metafora corrosiva e amara della nostra realtà basata su un’ingiustizia sociale di fondo. La metafora quindi: una pioggia continua pervade il paese, che sembra preoccuparsi solo di questa (“d’altronde la pioggia bagna tutti, mentre la guerra non uccide mai tutti, quindi è più grave la pioggia”), mentre una guerra civile tra classi continua a mietere le sue vittime. In una palazzina di alienati sociali, vediamo l’angoscia di una routine mortale di uomini mediocri, razzisti e potenziali killer che si frantuma in mille pezzi.
L’unica (falsa) soluzione a questi mali sembra il solito uomo della provvidenza, appartenente come sempre alla classe dominante, egemone, la cui retorica è completamente smontata e svelata da Celestini. E qui la metafora ritorna sui binari della realtà, perché uno di questi uomini della provvidenza, poi mostratisi per quelli che sono, è citato esplicitamente, ovvero Mario Monti e la sua famigerata battuta sulla noia per il posto fisso.
A fine discorso lo spettatore si trova in una
trappola diabolica: applaudirà l’attore o il tiranno di turno, piegandosi anche
lui alle logiche del potere? Perché noi spettatori siamo rotelle di questo
sistema malato, ci spiega l’attore-dittatore nel suo discorso, e quindi nella
nostra misura siamo responsabili delle storture del mondo. Ascanio Celestini
lancia dunque uno schiaffo potente allo spettatore nella critica corrosiva ed
efficace al sistema a cui, bisogna ammetterlo, risulta difficile replicare. Ma
esserne convinti significa accettare la nostra parte di colpa e di
responsabilità. Cosa resta, dunque? Un’esperienza di riflessione che è
assolutamente necessaria per chi voglia definirsi cittadino, del mondo. Una
lezione di vita, di storia, di alto teatro, da vedere, da soffrire, da
riflettere.
Discorsi alla nazione – Uno spettacolo
presidenziale, visto a Pubblico Teatro di Casalecchio di Reno, il 27 novembre 2013
Fabio Raffo
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