Quella del pittore naif scoperto per caso dall’artista Marino Renato Mazzacurati
nei boschi reggiani è una storia difficile da raccontare, perché tira in ballo
davvero troppi temi: dalla follia all’emarginazione, al periodo storico tragico
(si parla della seconda guerra mondiale), tutto porterebbe alla creazione di un
personaggio complesso, aulicamente tragico, impostato. Nulla di tutto questo,
per Perrotta: si parte dall’uomo che è dietro all’artista folle e osannato, dai
suoi dolori e dalle sue sofferenze e si recupera il suo rapporto con il mondo
attraverso il disegno.
È il carboncino sulla tela a guidare lo spettacolo, a
dargli quel binario parallelo senza il quale, probabilmente, ci saremmo
ritrovati davanti all’ennesimo monologo a effetto; le immagini che nascono dalle
parole sono il punto più alto di riflessione sul personaggio, nel loro
generarsi ed esaurirsi urlano al pubblico il perché del loro esistere, la
ricchezza del vissuto che si portano dietro.
Insieme alla bravura del
Perrotta-attore, le immagini costruiscono il personaggio Antonio Ligabue: fanno
da antagonista, da co-protagonista, da servo di scena, da scenografia. Il
disegno diventa parte integrante della vita raccontata e il racconto non può
staccarsi dalle immagini. Allora lo sguardo puro dell’artista autodidatta e istintivo
si allarga, arriva a inglobare tutta la scena perché si proietta nelle sue
opere.
L’incomprensione, l’emarginazione, la follia e il genio
portano il Toni a scontri diretti con il mondo del reale, con quelle immagini
ben più dure e crude dei suoi disegni: con gli uomini. E alla fine, Perrotta lo
riconduce al suo rapporto univoco con la natura, all’essenziale che salva dalla
sterilità dell’uomo e dalla sua cattiveria. Fugge da Gualtieri, El Matt, fugge
da quelle radici impostegli dalla società, da quel paese che lo rifiuta e si
rifugia tra i pioppi, portandoci via con sè: una scenografia di sole luci che
riesce ad annullare le poltroncine dell'Itc Teatro, a catapultarci sulle rive
del Po tra l’argilla usata per le sculture e le grandi aquile che ossessionano
la memoria del povero folle fino al suo riconoscimento come artista, al suo
successo, al suo isolamento definitivo. Se c’è un colore caldo nella storia di
Ligabue raccontata da Perrotta, è quello della natura; della simbiosi con gli
animali, con l’acqua che scorre, con il fieno che riscalda e la coscienza di
come questo immenso tesoro sia rivelato solo a chi ha occhi ancora capaci di
vederlo. Nei palazzi romani, santuari dell’arte che si mostrano ben lieti di
ricevere il genio di Ligabue, i piedi scalzi risuonano più dei tacchi a spillo
e la società è pronta ad accettare l’estro, l’irruenza, il carattere bieco e
scontroso dell’artista ma rimane indifferente alla sua sete di affetto, ai suoi
occhi che implorano.
Finisce così, la storia di Ligabue, con un rifiuto testimoniato
su video. Perrotta si presta al racconto anche dopo la morte, non si nega alla
rabbia del “poi”: milioni di occhi che piangono, ma cosa? La perduta occasione, l’incapacità di saper
valutare, il quadro ormai regalato che ha perso ogni valore mentre l’uomo resta
solo, nella sua bara. A chiudere la storia di continui rimandi, rifiuti e
delusioni, Perrotta lascia la scena a Ligabue, alle sue immagini, ai suoi
quadri. Ai suoi occhi strabuzzati che donano un disegno in cambio di una carezza,
ancora una volta negata.
Un Bès – Antonio Ligabue di Mario Perrotta / primo capitolo
del Progetto Ligabue
Visto all’ ITC Teatro di San Lazzaro, il 13 novembre 2013.
Elvira Scorza
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