È una calda giornata di primavera, e i vostri inviati preferiti sono pronti a portare a termine una nuova missione per il vostro gentile diletto. Illustre ospite sarà, questa volta, l’indipendente e originalissima Vanda Monaco Westerstahl. Di origine napoletana, la signora Vanda ha avuto un passato prestigioso nel mondo accademico fino a quando non ha deciso di abbandonare tutto per recarsi in Svezia. Qui si è dedicata anima e corpo al teatro nelle vesti non solo di attrice ma anche di regista, dramaturg e autrice drammatica. Consacrata alle scene più prestigiose del regno, ha esportato in modo intelligente e efficace la sua arte in Italia, creando un nuovo polo di sperimentazione e ricerca a Bologna. Enigmatica e esaustiva, gentile come una zia, vagamente somigliante nell’aspetto a Marisa Laurito, ci riceve nella sua deliziosa casa di Bologna. Il soggiorno è arredato in modo essenziale ma con gusto. Una grande porta finestra è aperta su terrazzino inondato di sole. È seduta al tavolo e smanetta allegramente con il suo PC portatile. Noto immediatamente il suo abbigliamento, osa una maglia lunga di velo plissettato a fantasia floreale dai toni pastello composta però all’interno di una giacchetta nera dal taglio elegante da signora. Ci accomodiamo e l’intervista dopo qualche convenevole ha inizio.
Ci spieghi perché ha abbandonato la sua promettente carriera accademica per realizzare il suo sogno d’attrice.
(sorride ed esclama senza quasi pensarci) Non lo so!...avevo voglia di fare teatro,o meglio di tornare al teatro. Prima di laurearmi infatti facevo teatro politico e sociale con Gianmaria Volonté (3 anni di collaborazione ndr), ma devo dire che questa dimensione del teatro non mi interessava particolarmente malgrado fossi molto impegnata in prima persona su quel fronte. Nel teatro ricercavo l’aspetto volto alla creazione di una comunicazione d’arte che raggiungesse il pubblico. Un aspetto su cui Volonté lavorava molto bene ma che al pubblico non era manifesto. Dunque passata questa prima esperienza, mi laureai in Storia del teatro e dello spettacolo con Giovanni Macchia presso l’ateneo di Roma e cominciai una fulminante e gloriosa carriera universitaria. Ero diventata quasi professore ordinario. Ero l’unica donna pronta a prendere la libera docenza. Dopo qualche tempo però mi annoiai. Sentii questo bisogno di rigettarmi nel teatro, volevo fare teatro! Rinunciai all’ordinariato e quando lo comunicai a colleghi e amici tutti mi guardarono esterrefatti e lo stesso Macchia mi giudicò matta.
Perché ha scelto di recarsi proprio in Svezia?
Volevo andar via dall’Italia, ma non sapevo di preciso dove andare. Avevo pensato alla Francia perché conoscevo già il francese, mentre non conoscevo l’Inglese. Poi per caso, conobbi mio marito. Un matematico e linguista di origine svedese e ci innamorammo. Mi recai pertanto in Svezia e lì “caddi in piedi”, in fondo cado sempre bene io!! (sorridiamo tutti divertiti). Lì c’era un gruppo di attori che lavoravano insieme a Ingram Bergman. Io ho lavorato con loro. Mi hanno fatto da maestri e mi hanno fatto crescere: io sono di fatto un’allieva di Erald Josephson che è stato il maggiore attore del grande regista.
Ci parli del sistema teatrale svedese.
Il sistema teatrale svedese è sostanzialmente costituito da una rete incredibile, con uno sviluppo territoriale enorme di teatri stabili, teatri regionali e poi c’è il teatro nazionale Reale svedese che all’epoca era diretto da Bergam. Esiste inoltre il Rik’s theater, finanziato col denaro pubblico e caratterizzato da una politica di tournèe in giro per la nazione. E poi vi sono i Fyar Grupper, coloro cioè che si occupano di teatro di ricerca. Questi sono composti da giovani artisti dalle competenze finissime. Professionisti formati nelle scuole, e ciò alza il livello di creatività.
Cosa ci può dire in merito alla sua professione d’attrice svedese rispetto a quella italiana?
Per rispondere è necessario fare una precisazione. In Svezia la preparazione attoriale si fonda sulle basi della scuola teatrale anglosassone e americana. Si forma così l’ attore della metamorfosi. Sono attori capaci di lavorare nel cinema, nel teatro nella televisione e nella pubblicità. Per esempio Helen Mirren, che ha interpretato sul grande schermo Elisabetta II d’Inghilterra (The Queen 2006) per il regista Stephen Frears mentre in televisione recita nel ruolo di un detective nella serie televisiva Prime Suspect. La base della cultura protestante è basata sul lavoro, su ciò che l’uomo fa non su ciò che l’uomo è (lunghissima pausa di silenzio volto a sottolineare questo aspetto) e io mi sono riconosciuta molto in questa cultura. La civiltà anglosassone pone il primato del fare e questo diventa molto importante per l’attore (l’attore è uno che fa). In Italia oggi non è così, poiché vige il primato della teoria e del pensiero filosofico. È questa una battaglia fortissima, penso che l’attore nella lettura del testo ad esempio non dovrebbe essere guidato da un pensiero teorico-filosofico ma da un pensiero pratico che implichi la conoscenza diretta delle cose. Altra caratteristica interessante della cultura teatrale svedese è che il potere del regista è molto limitato, Bergman stesso per i suoi lavori partiva dai consigli e dalle richieste degli attori. Dava loro, in un secondo tempo, i ritmi e i tempi. In Italia il regista sembra invece il portatore di una verità assoluta. A me piacciono le parole e i personaggi. Il teatro svedese come quello americano e anglosassone è molto basato sul testo e sui personaggi. Prima che l’attore cominci a lavorare, il personaggio non è mai dato. Questo alza le possibilità creative dell’attore. Stessa cosa avviene con l’analisi del testo come un plot in modo tale da comprenderne le istanze per manipolarlo come meglio si crede.
Tre personaggi legati dall’Eros: Pasolini, Don Giovanni, Giambattista Marino … cosa l’ha affascinata di questi personaggi?
Lo spettacolo su Pasolini mi fu proposto da Gunnel Lindblom, lo spettacolo si intitolava L’Eros, il Tempo e la Morte tematiche molto forti nell’opera pasoliniana. In questo caso, ma anche per ciò che concerne gli altri due spettacoli, sono sempre partita dalle opere e da ciò che provocavano dentro di me e non dalla vita dei personaggi-autori, di cui mi importava poco o nulla. Attraverso le opere ricostruiamo l’essenza del personaggio. Le lettere su Parigi del Marino a esempio sono bellissime e divertentissime e la platea alla prima rideva da matti. “Mi guardo allo specchio e non so che faccia ho” questa è una frase che ha scritto Josephson nelle sue memorie e riassume l’idea che permea il concetto di attore di metamorfosi.
Che ricordi ha delle sue esperienze laboratoriali presso l’università di Bologna?
Ricordo gli effetti magnifici sugli allievi. Innanzitutto venivano posti come protagonisti veri dell’esperienza e io dovevo solo guidarli. Facevamo un vero lavoro di prove moderne e contemporanee, mettendo in moto impulsi sulla voce e sul corpo e poi si cominciava un percorso che si fa di solito con gli attori professionisti fermandosi però alla prima filata. Questo perché non si poteva chiedere di più. Ma gli allievi erano meravigliosi e la loro disponibilità rimane nella mia memoria come una delle cosa più belle che abbia incontrato nella mia vita.
Nel Febbraio del 2009 le cronache teatrali riportano la notizia di una Vanda Monaco a seno scoperto sul palcoscenico all’età di 60 anni nel contempo le cronache televisive si indignano per il seno in bella vista di Patty Pravo al festival di Sanremo. Che significato ha dato a quell’evento?
Interpretavo per la regia di Fabio Acca Giacinta Pezzana , un personaggio che aveva un rapporto molto complicato con il suo corpo. Mi diedero l’indicazione di spogliarmi. Ma io non conferii a quel gesto nessun significato particolare, è questo il bello dell’attore di metamorfosi. Io, in quel momento, ero un'altra persona in un altro posto e di conseguenza mi sentivo a mio agio. E penso, altresì, che gli artisti pop, come Patty Pravo in questo caso specifico, vivano delle sensazioni simili allorquando entrando su un palcoscenico si proiettano (alcuni purtroppo “aiutati” dalla cocaina) su un altro pianeta divenendo altro da se stessi per poter reggere un pubblico tanto vasto.
A questo punto è giunta l’ora di andare, la signora Monaco ha un nuovo appuntamento. È stata tanto gentile e affabile, ci ha rallegrati con i suoi improvvisi divertissement in dialetto napoletano e incantati con la sua verve e condivisibile forma-mentis. Ripensandoci la immagino così: intenta a cucinare un dolce napoletano nella sua casa in Svezia e nel contempo a cantare a gran voce un aria del Don Giovanni di Mozart. Seduta sul divano di casa ma sempre pronta a reinterpretare il monologo “essere o non essere” dell’Amleto di Shakespeare anche quando, divertita, guarda in tv la Mary Poppins di Disney e chatta allegramente su face book con un amico lontano. Una donna formidabile, una lietissima conoscenza.
Enrico Rosolino, Mariangela Basile
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