Assolo ironico, dissacrante, surreale, cinico, politico, culturale, divertente da morire, mostruso, deformato: praticamente italiano, ma non particolarmente patriottico. È il nuovo spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella dal titolo che è un concentrato del suo senso: 7-14-21-28. Come in un enorme gioco della campana un “uomo” rimbalza da un numero all’altro, da un’esperienza all’altra. La vita viene messa alla berlina e inserita in un parco giochi sgangherato che diventa scenario di tutti i temi scottanti della nostra società: fede, lavoro, salute fisica e mentale, cultura, moda, violenza e abusi, politica e potere.
Dopo un periodo di assenza dalle scene bolognesi il duo Rezza-Mastrella torna a Teatri di Vita più cattivo che mai. Dal 1987 a oggi hanno realizzato sette opere teatrali: "Nuove parabole" 1988, "Barba e cravatta" 1990, " I Vichinghi elettronici" 1991, "Seppellitemi ai fornetti" 1992, "Pitecus" 1995, "Io" 1998, "Fotofinish in bianco e nero" 2003, “Bahamut” 2006. Tra il '91 e il '92 partecipano al festival di Cervia sul teatro di figura che li consacra. Ma sono artisti e autori completi che sanno esprimersi con diversi linguaggi: dal teatro al cinema, dalle arti plastiche alla scrittura. E in quest’ultimo lavoro pare che tutte le loro inclinazioni siano mescolate per creare un unicum inscindibile.
Naturalmente non è un teatro di narrazione: è inutile cercare un filo conduttore. Sono “pezzi di vita che diventano viaggio” direbbe De Gregori. Non ha una (sola) storia, ne ha tante. È volutamente contorto sia nel testo che nella scena. Non è drammaturgia che “nasce seduta a tavolino”, serena e meditata, ma piuttosto si ha l’impressione che corra in preda a schizofrenia acuta. È una scrittura veloce figlia di questo tempo che guarda solo ai numeri e ai risultati. In una intervista rilasciata al Corriere di Bologna il duo si esprime così: «Ci piace fare spettacoli col sentimento del tempo che viviamo: perciò ora affrontiamo la civiltà numerica (…) I numeri determinano i personaggi, ogni numero è un personaggio. Salto da una parte all’altra, e ogni volta che atterro sono una cifra diversa e una figura differente».
Dallo spazio creato nasce la parola. Al centro del palco un’altalena, corde, reti, veli, nastri e un bilancere e il tutto è rigorosamente ingarbugliato. Rezza, con il suo corpo-capolavoro, è lì che gioca con la scena, si nutre di essa e si fonde con essa. L’attore, con la sua capacità di deformarsi e di contorcersi, con le sue maschere mostruosamente comiche, diventa inevitabilmente drammaturgia. Le parole, che potrebbero sembrare fisse una volta e per sempre, vengono, invece anche loro, dette, ripetute, masticate, accelerate, deformate nel ritmo, nel tono e nel volume. Non c’è niente di definito: è come se il precariato fosse condizione sine qua non di tutta la messa in scena, come se rifiutasse tutte le etichette possibili.
Il rapporto con il pubblico poi è fondamentale: Rezza non teme il confronto. Improvvisa sulle battute e sui pensieri dello spettatore che, per tutta la durata della performance, è catturato e coinvolto in una rete di assurdità.
A sostenere i salti mortali sulla scena di Rezza c’è un giovane attore, Ivan Bellavista, che dà prova di destrezza, intuito e velocità.
Il duo Rezza-Mastrella, quindi, turba e diverte. Lui recita, lei inventa lo spazio scenico, o lui inventa lo spazio scenico e lei lo recita? Sicuramente sono esibiti in una lettura spietata e senza esclusioni di colpi della società in cui viviamo.
Josella Calantropo
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