martedì 17 maggio 2011

Quattro moschettieri guidati da un D’Artagnan d’eccezione: i “Maestri” di Roberto Latini

Armati di coraggio per le scelte, di amore per il proprio lavoro e di libertà per le idee si sono esposti al pubblico del Teatro San Martino di Bologna. Hanno raccontato il loro teatro e la loro vita, i loro inizi e i loro progetti futuri; hanno dato prova di essere dei grandi registi e attori ma soprattutto dei maestri con i quali è ancora possibile confrontarsi, con i quali è ancora possibile parlare in un pomeriggio qualunque di sogni e dei diversi possibili modi per realizzarli. Quattro uomini che si portano dietro esperienza e competenza, che credono ancora sia possibile trovare l’isola che non c’è. Quattro paladini della scena teatrale contemporanea che hanno fatto conoscere il made in Italy in giro per il mondo con risultati d’eccellenza. Quattro giornate di dialogo e di incontro con i protagonisti più premiati del panorama nazionale: Marco Martinelli, Giorgio Barberio Corsetti, Armando Punzo e Mario Martone. Il ciclo di lezioni dal titolo Maestri è stato coordinato da Roberto Latini direttore artistico del Teatro San Martino di Bologna, nonché impavido D’Artagnan, che ha creduto in prima persona nel progetto e che ha seguito come presenza muta lo svolgersi dei lavori. L’iniziativa è alla sua seconda edizione e visto il successo di pubblico attendiamo speranzosi, il prossimo anno, la terza.
Per raccontare il progetto ho immaginato delle interviste, come se i protagonisti avessero parlato direttamente con me e avessero risposto alle mie più dirette curiosità.    

Marco Martinelli: il mestiere dell’asino

Fondatore a Ravenna del Teatro delle Albe nel 1983 con Ermanna Montanari, compagna di lavoro e di vita, Martinelli chiamato in questa occasione come maestro si presenta a noi da asino con il suo concetto di “asinità” sul quale da anni fonda il lavoro della compagnia.
Cos’è per te il teatro?
Non posso dire teatro senza dire anche vita, filosofia, politica e natura. È un tutto indivisibile che non riesco e che non voglio pensare separato. Ma per raccontarvi il mio teatro non posso evitare di partire da una lettura a noi cara: L’asino cillenico del Nolano di Giordano Bruno. È una breve lettura carica di valore e molto teatrale. È la storia di un asino parlante che chiede a un pitagorico, Micco, di poter entrare in Accademia. Micco e i suoi colleghi gli negano l’entrata, e quindi segue uno scontro dialettico in cui l’asino si dimostra più sapiente dei patentati sapienti. Nel finale arriva il dio Mercurio in persona che, con scorno dei pedanti, benedice l’asino e lo fa entrare. Ecco, noi cerchiamo di essere “asini del teatro”: piccoli, umili e cocciuti. Sempri attenti all’ascolto senza il quale crediamo non si possa oltrepassare la soglia che ci divide dal sapere.
Fino a che punto sei disposto a osare?
Fino al punto di fare la Non-scuola prima a Ravenna: laboratori con i ragazzi delle scuole che avevano un rapporto con il teatro che assomigliava a quello che si può avere con un tortura. Non andavamo a insegnare. Il teatro non si insegna. Andavamo a giocare, a sudare insieme. Abbiamo osato fino al punto di andare a Scampia a fare la Non-scuola grazie a una provocazione di Goffredo Fofi, per poi spostarci fino in America, Senegal. Osare fino al punto di mettere sempre tutto in discussione, affinché ogni lavoro abbia un senso e non ceda ai cliché. Servire il nostro dio, il dio del teatro, per noi equivale proprio in questo saper osare, saper andare oltre i limiti.
Giorgio Barberio Corsetti: “Il mio spettacolo preferito? Il prossimo”

Classe 1951, 36 anni di teatro, diplomato alla scuola di arte drammatica “Silvio D’Amico” ha lavorato con i più grandi maestri del ‘900 (tra cui un laboratorio con J. Grotowski), vincitore di premi Ubu, fonda la compagnia La Gaia Scienza nel 1976 affermandosi come uno dei più innovativi rappresentanti della scena teatrale contemporanea, ma difronte al pubblico del San Martino sembra essere quasi imbarazzato. Non riesce a stare fermo sulla sedia, infatti poco dopo la sedia si rompe, racconta la sua vita teatrale semplicemente e quasi banalmente. La sua voglia di continuare nella ricerca teatrale passa con le parole, che ci informano sulla cronologia degli eventi, ma sono soprattutto i suoi occhi che ci restituiscono l’adrenalina del cambiamento.
Che cos’è per te il teatro? 
Il teatro è per me un incontro tra persone, tra attori e spettatori. Andare a teatro non vuol dire andare a vedere qualcosa, ma andare a condividere un’esperienza. Che non è mai improvvisata, ma al contrario immaginata, progettata e costruita. Esattamente con lo stesso impegno di uno scultore difronte a un pezzo di marmo: idea, intenzione e tecnica. L’attore scolpisce una materia di diversa natura, il suo lavoro è specifico e concreto. Ecco perché il tempo delle prove è di vitale importanza per chi vuole lavorare consapevolmente. Lo spazio, il tempo, gli oggetti, le arti in genere convogliono tutte nel teatro e il regista è uno che sa un po’ di tutto e niente per bene.
Fino a che punto sei disposto a osare?
Dal 1975 a oggi quando mi chiedono “Qual è il tuo spettacolo preferito?” Io rispondo sempre “il prossimo, perché è ancora da fare”. È in questo scarto che si annida la mia spinta a proseguire. Dal laboratorio con J. Grotowski alla Biennale di Venezia del 1976 (direttore artistico Luca Ronconi), a oggi il mio unico comune denominatore è stato il cambiamento, la metamorfosi come filosofia di vita. Passando attraverso varie tecnologie e vari mezzi ho cercato di essere aperto a tutti i possibili dialoghi.
Armando Punzo: “Mercuzio non può e non deve morire”

Fondatore della Compagnia della Fortezza di Volterra nel 1988, vincitore del Premio Ubu 2010 come miglior regia dell’anno allo spettacolo Alice nel paese delle meraviglie - Saggio sulla fine di una civiltà, Punzo ci racconta paure e speranze per il futuro del teatro in carcere.
Che cos’è per te il teatro?
Da 23 anni per me il teatro è il carcere. Ecco perché da quando sono entrato alla Fortezza di Volterra ho cominciato a lavorare per la costruzione di una compagnia stabile, per un teatro stabile. Nessuno aveva mai pensato prima di trasformare un carcere in un teatro. Nessuno ci aveva mai pensato in una forma così compiuta, immaginando in modo strutturato che la fabbrica del male, la fossa dei serpenti, il pozzo infernale, la galera, o comunque si voglia definire un carcere, potesse avere un'altra faccia che contraddicesse e mettesse in discussione il pensiero comune sulla funzione e le finalità di un istituto di pena.
Fino a che punto sei disposto a osare?
Stiamo lavorando al prossimo spettacolo tratto da Romeo e Giulietta di W. Shakespeare. La nostra idea è di concentrarsi sulla figura di Mercuzio. Dopo il suo monologo sulla Regina Mab, avremmo voluto che Romeo non avesse mai pronunciato la frase “Basta, Mercuzio, basta! Tu parli di niente”. È in questo preciso istante che secondo noi la figura del poeta muore, è questa la tragedia dell’arte: smettere di sognare. Sono disposto a osare fino a andare contro il pensiero comune che non crede possibile che un’istituzione come quella carceraria possa e debba cambiare. Mercuzio non può e non deve morire.
Mario Martone: da Mazzini rivoluzionario al ’77 bolognese

Con il film Noi credevamo è vincitore ai David di Donatello 2010 di sette statuette, “una per ogni anno di lavorazione al film”. Pluripremiato in tutti gli ambiti in cui ha lavorato, dal teatro di avanguardia nelgi anni ’70 a Napoli con il gruppo Falso Movimento, ai premi Abbiati per le regie liriche, alle regie cinematografiche, nel 2007 diviene Direttore della Fondazione del Teatro Stabile di Torino.
Che cos’è per te il teatro?
Il teatro? È un po’ cinema, un po’ musica, un po’ arti visive, ho sempre cercato di fondere tutti gli elementi. Ho cominciato a fare teatro perché era un modo che mi permetteva di esprimermi e che non costava niente. Provavamo i nostri lavori in una cantina che si chiamava Spazio Libero e che il proprietario ci aveva messo a disposizione. Ecco perché ho cominciato con il teatro. Ma avrei forse fatto direttamente il cinema se ne avessi avuto la possibilità.
 Fino a che punto sei disposto a osare?
Il mio voler essere sempre “obliquo” in tutte le situazioni. Affrontare le cose, guardare il mondo in maniera trasversale. Questo è il mio modo di osare. In Noi credevamo ho voluto raccontare un Mazzini che ha un gusto particolarmente shakespeariano, cupo e malinconico, qualcuno ha detto che la descrizione della mia Giovine Italia assomiglia a una setta terroristica. Io credo di aver messo tanto in questo film di quello che ho vissuto nel mio ’77 a Bologna. Probabilmente il ricordo della rabbia che si respirava in quegli anni così combattuti ha preso le sembianze di Mazzini, ma non credo di aver mai tradito l’onore e il sacrificio di quell’eroe. 
Sono adesso impegnato nelle Operette Morali tratte da Giacomo Leopardi sono tre ore di spettacolo e proprio in questi giorni ha raccolto il tutto esaurito al Teatro Argentina di Roma. È un testo letterario ma molto teatrale, anche questo è un modo di osare: guardare un’opera classica in modo obliquo.

Josella Calantropo

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