sabato 7 maggio 2011

Intervista a Fabrizio Gifuni

Sono emozionata. Ho visto Fabrizio Gifuni più volte in televisione e al cinema, ed è un attore che stimo. Non gli era stato detto della mia intervista, così, non appena sono arrivata ai laboratori DMS per l’incontro che ha tenuto il 2 aprile, l’ufficio stampa del Dipartimento di Musica e Spettacolo, Laura Bernerdini, mi ha presa per mano e portata da lui. Era visibilmente stanco e accaldato, ma ha accolto con un grande sorriso la mia richiesta di intervistarlo. Mi ha dato subito l’impressione di essere una persona gentile, dolce e alla mano. E la mia impressione è stata confermata durante l’intervista: spesso veniva interrotto da persone che volevano salutarlo, che avevano bisogno di parlargli. Ma nonostante questo, ha risposto con calma e precisione, dedicandomi tutta la sua attenzione.

Ha delle figure alle quali fa riferimento, da un lato come autore, dall’altro come attore?
Forse la mia risposta ti deluderà, non ho modelli specifici. Ci sono autori e attori che rispondono al mio gusto personale e influenzano la mia vita, fanno parte del mio portato culturale, come accade a tutti. Non parlerei di modelli, in quanto, se sono diventati tali, è perchè hanno prodotto qualcosa di originale, irripetibile, per cui sarebbe una partita persa in partenza riferirsi a loro esplicitamente. Più che di modelli, parlerei di una commistione di conoscenze ed esperienze che hanno fatto di me l’attore e l’autore che sono.
Spesso si guarda al teatro come una forma d’arte marginale, di interesse per pochi, che, quindi, incide molto limitatamente sul panorama culturale italiano. Lei cosa ne pensa?
Credo che il teatro abbia il dovere di dialogare con l’attualità, di parlare allo spettatore per farlo riflettere. È per questo che durante lo spettacolo cerco di fare in modo che il pubblico esca dalla abituale passività, rivolgendomi direttamente a qualcuno, se distratto e tenendo la sala accesa nella seconda parte. Per questo chiedo “A cosa serve tutto questo?”, l’attore non è un prostituta che intrattiene il pubblico, ma deve proporgli argomenti su cui porsi delle domande. Il teatro, soprattutto oggi, ha l’obbligo di fare cultura, creare consapevolezza, pungolare lo spettatore per spingerlo a mettersi in discussione. Il pubblico deve prendere coscienza della realtà che lo circonda e comportarsi di conseguenza.
In una recente intervista ha affermato che bisogna rispondere all’oscenità dei tempi moderni con la complessità. Non si rischia in questo modo di non essere compresi, quindi, di non essere efficaci nei confronti del pubblico?
Non penso che in teatro debba sempre essere tutto chiaro al pubblico. Chi costruisce uno spettacolo non deve preoccuparsi di rendere esplicito ogni aspetto. Lo spettatore può comprendere non solo attraverso la razionalità, ma venire coinvolto emotivamente, ricevere stimoli e provare sensazioni che non riesce a comprendere. Ma questo può avvenire solo se lo spettacolo ha qualcosa di importante da dire, qualcosa che parli allo spettatore di ciò che gli sta intorno. Se si cerca di raggiungere tutti, avere il consenso di tutti, si finisce per dire delle banalità. Quindi ritengo che, nel caso in cui il pubblico resti indifferente rispetto a ciò che vede, debba essere chi scrive lo spettacolo, a prendersene la responsabilità.

Mariangela Basile

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