C’è un uomo sulla scena. Un borghese impolverato che costruisce una colonna di bicchieri di vetro. Che alza solaio dopo solaio, piano dopo piano una fragile torre di cristallo. Assistere alla messa in opera di questa precaria architettura provoca stati di ansia, come quando si vede un acrobata che volteggia nel cielo di un tendone da circo: il fiato si sospende per seguire l’andamento lento del procedere inesorabile. Per raccontare questo lavoro teatrale bisogna recuperare quella sensazione.
C’è un uomo sulla scena, Silvio Castiglioni, ma c’è anche una donna, borghese e impolverata, Emanuela Villagrossi, e insieme narrano una strana storia, anzi cercano di spolverare, di riportare attuale la Storia della colonna infame che Alessandro Manzoni aveva voluto alla fine de I Promessi Sposi ma che spesso viene taciuta e cassata. Visto al CRT Salone di Milano, questa storia parla di ingiustizie, infamie e di innocenti condannati.
In breve
È il 1630 e Milano cerca dei colpevoli a cui attribuire la diffusione della peste che ha messo in ginocchio la città. Si è a caccia di untori: che siano colti in flagrante o solo accusati di un fatto che non hanno commesso, poco importa. E infatti una “donnicciola”, Caterina Rosa, giura di aver visto un tale camminare rasente una casa strofinando la mano destra contro il muro mentre lasciava cadere un liquido giallo. Viene così arrestato e torturato Guglielmo Piazza con l’accusa di aver sparso unguento pestifero per le strade cittadine. Ma Milano non si accontenta, crede che non abbia potuto agire da solo. E il Piazza è costretto a fare il nome di un complice inesistente: lo sfortunato si chiama Giangiacomo Mora ovvero il suo barbiere. Viene arrestato e interrogato e, dichiaratosi estraneo ai fatti, viene torturato. Fino a quando il Piazza non provvede a trovare una terza persona indicata come ideatore del crimine: Don Giovanni Gaetano Padilla, nobile spagnolo che sarà in seguito assolto per via del suo rango. Una sentenza basata su falsità, menzogne e senza una benché minima prova, condanna a morte sia il Piazza che il Mora. Dopo un atroce martirio i loro corpi vennero bruciati e le ceneri gettate nel fiume. La casa-bottega del Mora venne distrutta e al suo posto eretta una colonna, detta infame, a ricordare alla cittadinanza che giustizia era stata fatta.
Dal testo alla messa in scena
Abbiamo imparato a recitare una scrittura - ci dice Castiglioni alla fine dello spettacolo – non sono dialoghi o battute. Il lavoro di drammaturgia è stato asciugare il testo, non è stata aggiunta una parola a Manzoni.
E allora per fare questo è necessario anche un consulente letterario che aiuti a tagliare, a sistemare, a modellare il racconto. E l’esperto, Luigi Weber, arriva da Rimini: ha curato un’edizione de La Colonna infame uscita nel 2009 per Ed. ETS- Pisa, e non vede l’ora di mettersi a lavoro. Certo ma per fare uno spettacolo teatrale non bastano attori e letterati, occorre il regista e lo scenografo. È così che Giovanni Guerrieri si siede al tavolo che a questo punto è completo. Cominiciamo a fare a cazzotti con il testo di Manzoni – sottolinea Castiglioni - Ognuno faceva notare le sue ragioni - ci dice Weber. E Guerrieri deve trovare azioni sceniche: il testo di per sé è statico. Si parte un po’ dalle immagini volute dallo stesso autore nel 1840, vengono fuori suggestioni; il professor Sisto Dalla Palma, direttore artistico del Teatro CRT di recente e improvvisamente scomparso, è entusiasta dell’idea. Mette a disposizione per la scenografia la sua cantina contenente pezzi d’epoca. Un lavoro fatto a più mani, a più teste ma anche a più cuori.
Il risultato
Una fioca luce proveniente dal basso posta lateralmente illumina la scena piena di roba antica. Divani, valige, lampade, librerie, suppellettili di gusto vintage creano un ambiente claustrofobico e impolverato. Un ventilatore, forse dimenticato acceso, gira le pagine di un libro ingiallito. I due borghesi, figure scelte dalla regia, raccontano la storia con pacata lentezza. A volte dimenticano parti del testo, a volte raddoppiano la voce come in un canto creando una preghiera in litania. Fin quando Castiglioni si alza dal divano, si pone al centro della scena e comincia a costruire la colonna di cristallo mentre pronuncia la condanna piena di infamie e di menzogne. Quando la torre è ancora all’altezza della base non ci si fa caso, giunto al primo piano speri che smetta, al secondo ti tremano i polsi, vorresti fermarlo e gridargli “Basta, stai costruendo una cosa che è destinata a cadere”. Ma mentre la torre sale e l’equilibrio è sempre più precario, a quel punto speri che non cada più, speri che resista, perché basta veramente un minimo errore, un movimento leggermente maldestro, perché tutto vada giù. Esattamente come la costruzione di un cumulo di bugie: è ingiusto dirle, è pericoloso montarle, ma una volta che si è eretto e su di esso qualcuno, anche in buona fede, ha fondato la propria vita, allora speri che non si sappia mai la verità perché sarebbe forse molto peggio. Al costo di sacrificare innocenti è meglio che tutto rimanga in piedi. Ed è così che si giunge alla fine con l’apparizione in fondo di due pecore che in un’ambientazione campestre ci ricordano che l’unica cosa che cerchiamo per lavare le false coscienze è una vittima sacrificale, un capro espiatorio. Accanto a loro, i borghesi si accoccolano riprendendo le parole di Lucia dell’ultima parte de I Promessi Sposi. Finalmente la storia è del tutto raccontata. Ora si può scrivere la parola “fine”.
Per riuscire a vedere questo spettacolo sono dovuta partire da Bologna e andare fino a Milano, perché La Storia della Colonna infame non ha trovato posto nei teatri bolognesi. Peccato, perché sarebbe stata una continuazione perfetta allo spettacolo I Promessi Sposi alla prova di Giovanni Testori realizzato dalla compagnia Lombardo-Tiezzi ospitato quest’anno al teatro stabile della città felsinea. Chissà, magari nella prossima stagione…
Josella Calantropo
Nessun commento:
Posta un commento