ATTRICI IN PERSONAGGI MASCHILI. Seconda tappa: ERMANNA MONTANARI, vista dalle studentesse della laurea specialistica
Bologna 9 e 11 marzo 2011
Lucia Bellesi
Ouverture Alcina
Potenza.
Potenza dell’immagine.
Subito “le luci frustate come lampi” (cito Marco Martinelli) creano un impatto temibile e angosciante con una figura delineata solo nel contorno. Poi il suo viso, incorniciato da un faro, esce allo scoperto, suscitando ancora più paura. Il trucco pesante e gli abiti scuri sono gli ingredienti che fanno da scenografia.
Potenza dei gesti.
Ogni movenza è diretta e incisiva; il suo sguardo passa in rassegna gli occhi di tutti senza tralasciare nessuno, lo spettatore rimane pietrificato dopo esser stato fulminato dalla sua vista, come in un incantesimo. La musica è principio vitale e, come una linfa, dà vita al movimento; il suono si unisce e si completa con il corpo e la voce, per creare una visione corale.
Potenza della voce.
Forti sono gli sdoppiamenti di personalità che si alternano: ora le parole escono come un’esplosione, ora, invece, sembrano graffiare la gola ed uscire sanguinanti. “E’ un dialogo continuo mutabile” (E.M.).
Personaggi maschili
Dominazione.
Dominazione della scena.
La sala straborda di gente e lei, come un re, sembra troneggiare; siamo tutti più piccoli di fronte alla superiorità che emana. E’ come trovarsi davanti una domatrice; nell’”Avaro”, questo l’ho riscontrato nell’uso del microfono, si è parlato di mezzo di potere e simbolo sessuale, a me ha, inoltre, suggerito l’idea di un frustino per domare le belve. Inoltre, ne Isola di Alcina gli uomini/cani vengono tenuti in gabbia e perciò governati. (Probabilmente quest’imponenza dei personaggi può aver lasciato forti accenti nella sua persona).
Dominazione dell’essere.
“Necessità di non avere confini” (E.M.)
Non esiste femminilità o mascolinità, non c’è distinzione di genere/sesso. Il controllo dell’essere neutro dà la possibilità di costruire una figura non definita materialmente; avendo questa capacità si può scontornare senza disperdersi e quindi fuoriuscire per assimilare. Ermanna Montanari si sofferma spesso sulla parola ”attesa”: attendere è pazientare, avere un forte controllo del proprio io, attendere è ricercare, studiare il metodo per raggiungere la perfezione, costruire i frammenti.
Dominazione della voce.
“Ogni personaggio parte da una visione vocale” (E.M.)
Ogni personaggio viene identificato e collocato con toni e accenti differenti l’uno dall’altro; in Rosvita e in Ouverture Alcina questi passaggi e mutamenti sono netti, forti e molto chiari. Questo si realizza nel momento in cui si ha un controllo della voce e una conoscenza del suono, nonché della lingua, impeccabili.
Livia Ferracchiati
Ho visto per la prima volta uno spettacolo delle Albe a Roma qualche mese fa ed era L'avaro, ero tra il pubblico che rideva di cui ha parlato Ermanna Montanari. É stato curioso rivedere quel monologo in video, perché, in effetti, sembrava diverso, particolarmente cupo. A Roma risultava tutt'altro, era comico. Questo mi ha fatto capire come la relazione, che s'instaura a teatro tra attore e pubblico, di sera in sera, modifichi radicalmente uno stesso testo.
Non mi è mai capitato fin'ora di studiare il percorso artistico di Ermanna Montanari e Marco Martinelli.
Premetto questo perché la prima cosa che mi ha colpita è stata il legame tra gli studi universitari della Montanari e la "poetica" (parola sempre rischiosa da utilizzare) del loro teatro.
L'Asinità, che per mia mancanza non avevo mai approfondito, legata nel suo significato a Giordano Bruno e alla tesi di laurea della Montanari, mi è stata chiarita fino ad un certo punto; il mio interesse piuttosto si è focalizzato sul legame tra studio teorico e pratico.
Mi ha interessata come lo studio universitario possa diventare centrale nel lavoro di chi il teatro lo fa. Forse perché quando si accede ad ambiti di formazione teatrale, a volte, la teoria può sembrare una "roba da intellettuali e basta".
Mi è capitato di seguire un corso di regia, essendo un po' presa di mira dalla docente (credo per il fatto che mi ponessi nei confronti del teatro in modo libero). Questa, correggendo le mie scelte registiche, sottolineava l'inutilità, se non la dannosità, della teoria, sostanzialmente per difendere la sua idea di teatro che dava come assoluta, salvo poi concedere una democratica indifferenza a tutte le altre possibilità.
In ogni caso sono convinta che, seppure la teoria non sia abbastanza, è non solo consapevolezza, ma fonte d'ispirazione per fare teatro.
Un altro aspetto che ho trovato molto interessante è stato quello dell' "attendere il personaggio", che io allargherei ad un "attendere la soluzione". Spesso si pensa che il talento stia nel trovare immediatamente una scappatoia, invece ho l'impressione che la bravura stia nel saper attendere e nel riconoscere l'unica via.
La prima idea è quasi sempre errata o incompleta, non c'è da affezionarsi, bisogna saperla criticare.
L'opera d'arte teatrale, così come l'opera d'arte in senso più ampio, è armonia tra le parti (anche quando l'insieme è volutamente disarmonico), ci deve essere una quadratura che o c'è o non c'è. L'armonia altro non è che equilibrio. Un equilibrio che non tutti sanno creare, ma che, quando è presente, tutti possono percepire.
Andando per un attimo oltre il lavoro con il microfono che ho trovato molto affascinante, mi ha interessata la spiegazione di Ermanna Montanari su come giunge al personaggio.
Non mi è mai capitato fin'ora di studiare il percorso artistico di Ermanna Montanari e Marco Martinelli.
Premetto questo perché la prima cosa che mi ha colpita è stata il legame tra gli studi universitari della Montanari e la "poetica" (parola sempre rischiosa da utilizzare) del loro teatro.
L'Asinità, che per mia mancanza non avevo mai approfondito, legata nel suo significato a Giordano Bruno e alla tesi di laurea della Montanari, mi è stata chiarita fino ad un certo punto; il mio interesse piuttosto si è focalizzato sul legame tra studio teorico e pratico.
Mi ha interessata come lo studio universitario possa diventare centrale nel lavoro di chi il teatro lo fa. Forse perché quando si accede ad ambiti di formazione teatrale, a volte, la teoria può sembrare una "roba da intellettuali e basta".
Mi è capitato di seguire un corso di regia, essendo un po' presa di mira dalla docente (credo per il fatto che mi ponessi nei confronti del teatro in modo libero). Questa, correggendo le mie scelte registiche, sottolineava l'inutilità, se non la dannosità, della teoria, sostanzialmente per difendere la sua idea di teatro che dava come assoluta, salvo poi concedere una democratica indifferenza a tutte le altre possibilità.
In ogni caso sono convinta che, seppure la teoria non sia abbastanza, è non solo consapevolezza, ma fonte d'ispirazione per fare teatro.
Un altro aspetto che ho trovato molto interessante è stato quello dell' "attendere il personaggio", che io allargherei ad un "attendere la soluzione". Spesso si pensa che il talento stia nel trovare immediatamente una scappatoia, invece ho l'impressione che la bravura stia nel saper attendere e nel riconoscere l'unica via.
La prima idea è quasi sempre errata o incompleta, non c'è da affezionarsi, bisogna saperla criticare.
L'opera d'arte teatrale, così come l'opera d'arte in senso più ampio, è armonia tra le parti (anche quando l'insieme è volutamente disarmonico), ci deve essere una quadratura che o c'è o non c'è. L'armonia altro non è che equilibrio. Un equilibrio che non tutti sanno creare, ma che, quando è presente, tutti possono percepire.
Andando per un attimo oltre il lavoro con il microfono che ho trovato molto affascinante, mi ha interessata la spiegazione di Ermanna Montanari su come giunge al personaggio.
Un gesto, una postura, un oggetto e la voce arriva da sé, come adescata.
In conclusione vorrei porre una domanda. Posto che la bravura della Montanari, nonché il suo carisma sul palco, sono conclamati, quante sono le sfumature che si possono dare alla voce per mezzo del microfono?
É una domanda relativa a quel poco che ho visto e sentito: ho notato infatti che alcune variazioni vocali in Rosvita (nei 6 minuti che abbiamo ascoltato) sono le stesse de L' avaro.
Potrebbe essere che il rischio di questo lavoro sia la ripetizione? E come si sfugge ad essa? Sempre che la si voglia sfuggire e che, invece, non sia una cifra stilistica, se non addirittura la tappa di un lavoro in itinere sulle possibilità della voce amplificata dal microfono.
In conclusione vorrei porre una domanda. Posto che la bravura della Montanari, nonché il suo carisma sul palco, sono conclamati, quante sono le sfumature che si possono dare alla voce per mezzo del microfono?
É una domanda relativa a quel poco che ho visto e sentito: ho notato infatti che alcune variazioni vocali in Rosvita (nei 6 minuti che abbiamo ascoltato) sono le stesse de L' avaro.
Potrebbe essere che il rischio di questo lavoro sia la ripetizione? E come si sfugge ad essa? Sempre che la si voglia sfuggire e che, invece, non sia una cifra stilistica, se non addirittura la tappa di un lavoro in itinere sulle possibilità della voce amplificata dal microfono.
Yiyi Liu
La voce di Ermanna Montanari negli spettacoli è indimenticabile quanto appassionante ed innaturale. Lei dice che la voce non ha sesso; dal mo punto di vista, si può anche dire che la voce negli spettacoli è una conclusione oppure un’astrazione dalle emozioni varianti nelle nostre vite reali. Il protagonista Arpagone nella commedia L’avaro di Moliere è più un emblema che un uomo della strada, porta tutti i vizi della società laica umana. Sulla scena si può vedere una poltrona che è utilizzata dall’inizio alla fine dall’attrice, in un’opera di semplificazione dell’ambientazione. La voce può essere una maschera, questo vale anche nella vita per noi che siamo diversi nelle varie situazioni.
L’opera che è intitolata Siamo asini o perdanti? mi ha lasciato perplessa. Gli asini mi sembrano come un’icona forte nel suo spettacolo che narra una storia senegalese di una donna-asina, che risulta comprensibile soltanto da un pubblico di un contesto familiare. Mi vengono in mente gli altri asini nelle installazioni dell’ artista contemporaneo Mario Cattelan, chi ha sempre messo gli asini (talvolte viventi) nello spazio armonioso delle gallerie e dei musei. Secondo me una grande oepra, non ha bisogno di offrire tanti dettagli e spiegazioni, ma è soltanto qualcosa che commuove gli spettatori.
Lavinia Morisco
Il regista delle Albe ha dichiarato che all’origine di ogni suo spettacolo c’è l’idea: il primo seme che scaturisce dalla fantasia e dalla testa. Come avviene nell’alchimia, l’idea inizia ad agire con una molteplicità di materie, creando il caos. Ma “l’ordine può venire solo dal disordine”, precisa Martinelli durante l’incontro alla Soffitta dell’11 marzo.. Dopo aver letto l’Orlando Furioso di Ariosto, Marco Martinelli e Ermanna Montanari sono rimasti affascinati dalla storia della maga Alcina. Chi è l’Alcina ariostesca? Una fata maligna che trasformava tutti i suoi amanti in alberi o pietre. Ebbene a partire dall’episodio ariostesco e dalle memorie dell’attrice, Nevio Spadoni ha scritto il testo dello spettacolo che trattiene in sé l’arcaicità del dialetto romagnolo dell’intimità familiare della Montanari e la magia di un testo fantastico e fuori dal tempo.
Risultato dell’accostamento di varie storie, vari caratteri, vari elementi, vari oggetti, esperienze reali e immaginate, Ermanna-Alcina diventa “una figura artificiosa, che non ha più nulla a che fare con il reale”. E’ artificiosa perché è costituita dall’accostamento dei tratti dei vari personaggi da lei interpretati nel corso della sua carriera artistica: Ermanna è l’Asina, è il corpo-microfono di Arpagone, è Rosvita, è Alcina. E’ come un prisma di cristallo dalle mille sfaccettature , è come una clessidra che avverte in sé il tempo che passa e che trova in esso dei punti di forza. E’ irreale perché è una voce che si materializza come spirito che popola le oscure foreste nella notte, che si amplifica, si sdoppia e si riunifica ed è libera nella sua gabbia. Qui la gabbia è una gabbia mentale e invisibile, dove un flusso di coscienza va a ruota libera, muovendosi a suo perfetto agio tra le interferenze sonore che dialogano con una voce ferina, gracchiante, piena di astio verso il sesso maschile. L’invettiva contro gli uomini, la danza nel buio e le foreste oscure mi fanno venire in mente le villi di un mondo fantastico: fanciulle amanti del ballo, morte in giovane età diventano pallidi spettri che costringono a danzare fino allo sfinimento e alla morte gli uomini che attraversano la foresta.
L’Alcina del Teatro delle Albe di Ravenna è l’esito di una metamorfosi interiore e continua dell’attrice delle Albe che interpreta questo ruolo: Ermanna Montanari. Che cosa si intende per metamorfosi interiore? L’attrice non ha fiducia in ciò che è corpo, che è materia. Afferma:
“L’atto di scarnificare è una pratica. Mi nego come corpo, il corpo è limitato, lo si deve dimenticare.” La Montanari percepisce il corpo fisico come gabbia, il suo corpo è la voce ed è determinato dalle sue origini familiari e dal suo spirito. Marco Martinelli dice di lei: il dialetto romagnolo, che ha portato in dote Ermanna da Campiano, il villaggio dove è nata, è fatto “di terra e suoni gutturali” , vincolo ruvido con la crudezza delle cose, ma diventa “musica vibrante” nella voce della donna che magicamente ha fatto di una “ natura barbara” “ un canto ” (Suburbia. Molti Ubu in giro per il pianeta, Ubulibri 2008, pp. 40 e 196).
L’originalità del teatro delle Albe sta nella sua creatività, intesa come capacità di creare e inventare sul già noto, il già realizzato, il già conseguito. L’episodio dell’ Isola di Alcina ariostesca diventa per così dire un’occasione per far riemergere il ricordo di un passato “mitico”, un passato che “risuona” come eco nella mente della Montanari: quello di Campiano, quello dei ruoli che l’attrice ha interpretato facendoli propri “ modulando ” il suo corpo voce ora in un corpo-microfono (ne L’Avaro), ora nel ragliare di un’asina (in Siamo asini o pedanti?) , ora nella vibrazione di un puro spirito, un “vento sterminatore che potesse abbattere la stupidità del consorte” (ne I Polacchi) . Se osserviamo le trasformazioni fisiche di Ermanna Montanari all’interno degli spettacoli appena citati, ci rendiamo conto che sono minime e che sono segnate dalla presenza di un oggetto o di un accessorio: il microfono di Arpagone, le orecchie da asina, la biacca della Madre Ubu, la calla di Alcina, una statuetta alata in Rosvita. Ma oltre a tutto questo, a quanto pare, anche nella realtà l’attrice porta con sé un oggetto. Durante l’incontro proposto da La Soffitta l’11 marzo 2011, la Montanari aveva tra le mani una pallina anti-stress. Le sue metamorfosi esteriori, sono simboleggiate da oggetti carichi di significato e non da un vero e proprio travestimento. Addentriamoci meglio nell’analisi accurata di questi “segni scenici” .
Il microfono ne L’Avaro diventa simbolo di potere. La voce che permette all’attrice delle Albe di fuoriuscire dai confini fisici del suo corpo e di “toccare” l’infinito, viene qui amplificata:
“Nella voce, non so perché, trovo una sorta di infinità, sono collegata al prima e al dopo. La voce è aria, non è del tutto Ermanna, mi porta fuori dal biologico. Il mio corpo invece non lo sopporto perché è finito, ha un perimetro, un’altezza, che posso misurare. E’ questa misura che mi blocca” (“La Repubblica”, 13 settembre 2008).
Guardiamo l’incipit di due recensioni su L’Avaro delle Albe:
“E’ nero e cupo l’Avaro del Teatro delle Albe. Arpagone, genialmente interpretato da Ermanna Montanari, emerge dal silenzio in una scena che viene smontata e rimontata da attori-personaggi-operai. Si avvinghia al microfono. Voce spezzata, roca, sussurrata nel microfono, sibilo e ghigno” (www.teatroteatro.it).
“E’ in nero, capelli raccolti in una lunga treccia finemente annodata di rosso, stringe a sé un microfono con asta.” (www.teatroecritica.net)
Ciò che immediatamente i due critici mettono in evidenza è la componente cromatica il nero, e il microfono afferrato con grinta, con sicurezza. Sono entrambi elementi che ritornano nella figura fantasmatica di Alcina (Ouverture Alcina ) .
Il microfono con asta, diventa asta in Rosvita, utilizzata perfino per “calpestare” una statuetta alata dai seni scoperti che prima Ermanna-Rosvita aveva tra le mani. La monaca e drammaturga Rosvita è vestita di abiti oscuri e porta dei lunghi e alti stivali neri. Anche qui tuttavia, lo strumento del potere, il microfono, non può mancare.
L’icona oscura si tinge di bianco e si illumina di una luce quasi “albeggiante” in I Polacchi, dove la Madre Ubu interpretata dalla Montanari, indossa un abito dalle tonalità chiare e ha il volto tinto di bianco. Quello stesso volto spettrale che come la luna schiarisce il buio notturno, riappare nella nebbia oscura della gabbia mentale di Alcina. Per la prima volta però, l’attrice ha qui dovuto rifarsi al ritmo del suo corpo e alle sue vibrazioni per trovare il suo ritmo interiore:
“La vibrazione di Madre Ubu era un’altra. Invece di ritmi a battito ho elaborato un’invenzione vorticosa e lineare; ho cominciato a roteare su me stessa come una trottola folle e instancabile.” (Suburbia, cit., p. 35)
Finchè in Ouverture Alcina, le sorelle di Campiano da due diventano una: Alcina. Unici punti luce nel buio della scena sono il volto fantasmatico della maga o fata, per attenerci al testo di Ariosto, e il pallore della calla: un fiore che fa pensare a qualcosa di inconcluso, con un’apertura maggiore nella parte superiore. Le luci di scena rendono visibili solo “la maschera” di Alcina e questo fiore simbolico.
Infine, pensiamo all’interpretazione di un’asina parlante in cui l’attrice porta sul capo delle orecchie da asino, che non a caso è l’immagine emblema del Teatro delle Albe e l’icona d’apertura del suo sito internet. Ma soprattutto si guardi al modo di legare i capelli utilizzato dall’attrice per fare l’asina: lo stesso che sarà poi riutilizzato da Ermanna-Alcina.
“Sentirsi asini, significa per noi non percorrere allineati e arroccati il perimetro delle proprie certezze, significa avvertire in sé la spinta della fame di conoscenza, l’allegrezza di attraversare il mistero, di praticare l’ascolto dell’Altro-Te-Stesso come un’arte, come via alla bellezza.” (“Atti & Sipari” , ottobre 2008)
Così l’attrice Ermanna Montanari esprime l’idea fondante del Teatro delle Albe di Ravenna, al quale è stato dedicato il terzo del ciclo di incontri dal titolo Attrici in personaggi maschili. Il ciclo è inserito nel programma de La Soffitta 2011 presso i laboratori DMS di Bologna. La dichiarazione fa pensare ad un concetto chiave da lei espresso nel corso dell’incontro formativo offerto da La Soffitta l’11 marzo che è costitutivo del suo modo di vivere e di guardare il mondo assolutamente fuori dagli schemi e dai preconcetti: guardare “scontornando”. Che cosa si intende con il verbo “scontornare”? Significa avere la tendenza ad eliminare i contorni delle cose, eliminare i contorni per accogliere la molteplicità, accogliere la molteplicità per avvertire dentro di sé la spinta della fame di conoscenza. Quando all’attrice Montanari si chiede di definire qualcosa o di autodefinirsi, la sua risposta non è mai del tutto attinente alla domanda. Perchè? Non concepisce l’idea di concentrarsi su una questione particolare; ha l’impressione di sentirsi in gabbia, di essere chiusa in un piccolo perimetro che non le permette di “scontornare” .
Il personaggio della maga Alcina ariostesca ha evocato nell’attrice una realtà del passato del suo paese natale, Campiano: due sorelle rinchiuse in casa per anni che gestiscono un canile dopo essere impazzite d’amore per uno stesso uomo che infine le ha abbandonate. Le due sorelle sono diventate due facce della stessa medaglia nell’Ouverture Alcina, spettacolo del 2009 con la regia di Marco Martinelli in cui Ermanna Montanari rappresenta lo sdoppiamento di Alcina rispettivamente in lei e la sorella demente, replicato il 10 e 11 marzo 2011 presso i laboratori DMS ed estratto da L’Isola di Alcina, testo di Nevio Spadoni scritto in dialetto romagnolo e ispirato alla vicenda di Campiano, e dall’omonimo spettacolo del 2000, che le è valso il premio Ubu. Ne L’isola di Alcina, Ermanna-Alcina aveva i capelli legati come le prime asine, la biacca della Madre Ubu e recitava accanto a sua sorella Principessa (Laura Redaelli). In Ouverture Alcina la Montanari è sola in scena. Marco Martinelli con una semplicità e umiltà inaudite entra in scena e narra l’episodio delle sorelle di Campiano. Poi si spengono le luci e si entra immediatamente nell’avvolgente paesaggio sonoro dell’Ouverture Alcina: 45 minuti di monologo che “dialoga” con i suoni.
La visione del mondo senza confini ritorna nel fiore che Alcina ha tra le mani: la calla. Rappresenta un’apertura che conduce all’ignoto e quindi ancora una volta a qualcosa di indefinito, di inconcluso. Anche lo spazio vuoto e buio in cui “danza” Ermanna-Alcina rappresenta un ambiente che c’è, ma non si vede e che per questo non mostra il suo perimetro e che si percepisce come soundscape con musiche di Luigi Ceccarelli. “Il suono porta lo spazio della scena in quello degli spettatori. Non proviene solo dal fronte, ma si disperde a 360 gradi e riempie tutto la sala”, dice Ceccarelli durante l’incontro bolognese. E’ un ambiente fatto di vibrazioni sonore che si scontrano, che sono in conflitto tra loro, ma che nonostante tutto non riescono mai a ostacolarsi. Piuttosto si incrociano, si amalgamano con la voce, si muovono in tutte le direzioni creando un’atmosfera surreale, inquietante che catapulta lo spettatore fuori dall’hic et nunc priettandolo in un passato che si è fermato e che si ripeterà all’infinito, proprio come quello delle sorelle di Campiano. L’attrice dichiara di avvertire una forza erotica nelle musiche di Ceccarelli dalle quali si sente attratta irresistibilmente.
Di Ermanna-Alcina, non si riescono neppure a scorgere i contorni sul palco: nel buio il suo viso pallido e spettrale fa pensare a una presenza fugace che viene compensata dalla concretezza della voce della Montanari e delle parole del testo di Nevio Spadoni. La presenza scenica dell’attrice è accattivante e incute timore: la mimica facciale ha fatto del suo viso una maschera inquietante, la voce ha reso Alcina una creatura dai tratti animaleschi (richiamo all’asina), la freddezza del suo sguardo smarrito nel vortice della follia d’amore fa pensare all’aridità dell’avaro Arpagone, un’aridità che questa volta è stata causata da un amore mancato per cui Alcina ha perso se stessa. Ma “le fate morir sempre non ponno” e per questo forse quando Ermanna afferma di aver lasciato Campiano per fare teatro, in realtà quel posto non lo ha mai abbandonato, ma l’ha portato con sé, con le sue storie, le sue “fate” e il suo dialetto.
Quasi tutti i ruoli interpretati dalla Montanari presentano la compresenza di tratti spettrali-animaleschi e la coesistenza di genere maschile-femminile.
Pensiamo all’interpretazione figurativa che ne ha dato Leila Marzocchi nella locandina de L’Avaro delle Albe. L’illustratrice e fumettista ha percepito nell’Arpagone della Montanari un essere che andava aldilà del genere e dell’umano. Sul manifesto dello spettacolo, lo rappresenta di profilo dalle sembianze animalesche, e con un corpo-tronco dalle grandi e visibilissime radici. L’elemento bestiale e animalesco ritorna nelle scarpe caprine di Rosvita e nella mimica facciale di Alcina.
La coesistenza di genere maschile-femminile invece, non deve affatto far stupire. Basti pensare a un’affermazione dell’attrice: “la voce non ha sesso. Contiene la possibilità di più corpi”. La voce è l’elemento originario di tutte le sue interpretazioni, ogni personaggio nasce sempre con “un’immagine vocale”. Anche l’immagine vocale è qualcosa di aereo, di inconsistente e di indefinito, ma allo stesso tempo trattiene in sé più corpi. Ancora una volta Ermanna sfugge alle tendenze definitorie e accoglie le molteplicità. Basti pensare al termine “asinino”, cos’è asinino per il Teatro delle Albe? Tutto ciò che “slabbra i contorni”, dice rispondendo a Laura Mariani durante l’incontro.
Lo spettacolo ha ben espresso la concretezza del qui ed ora del teatro ( presenza scenica, mimica, voce, testo, suono, ambiente sonoro) , ma nello stesso tempo la sua natura labile, fugace. L’esperienza più determinante è quella uditiva: la voce, il suono, la parola che si fa suono, sono vibrazioni che si diffondono e si disperdono nell’aria. Eppure quando ci si alza dalla poltrona e ci si avvicina all’uscita del teatro si sente ancora risuonare quella frase nelle orecchie: “A m’so insmida” (mi sono istupidita).
Chiara Pesce
L’incontro con Ermanna Montanari tenutosi il 9 marzo ai laboratori DMS è stato molto interessante e utile per proseguire il nostro percorso, alla ricerca del significato che ha il travestimento nel teatro contemporaneo e in particolare per le attrici che hanno recitato in vesti maschili. La compagnia delle Albe di Ravenna sì è cimentata nell’Avaro di Molière con la regia di Marco Martinelli e con Ermanna Montanari nella parte del protagonista: ruolo non solo maschile, ma tradizionalmente interpretato da uomini.
Durante l’intervista, prima di parlare dello spettacolo, l’attrice ha spiegato cos’è per lei e per la compagnia delle Albe un personaggio.
Anche se spesso questa parola è utilizzata per semplicità e per sintesi, Ermanna Montanari non definisce così le sue creature, le chiama invece figure. Il termine personaggio, infatti, presuppone, secondo la tradizione, uno sfondo psicologico che lo rende riconoscibile e inconfondibile e implica che nel costruirlo l’attore debba lavorare soprattutto sulle sue caratteristiche peculiari.
Per Ermanna Montanari creare una figura da mettere in scena significa il contrario, e cioè non riprodurne le caratteristiche, avendole già ben definite, ma avere la massima apertura possibile, lasciare che queste caratteristiche si manifestino seguendo la linea degli sconfinamenti. Questi sconfinamenti sono sia percettivi che di ambito: una condizione sine qua non per dare corpo a ogni figura che interpreta. Ermanna Montanari definisce questo tipo di ricerca asinina, infatti, l’asino, simbolo della compagnia, riassume lo spirito delle Albe il cui impegno teatrale fa dell’ignoranza asinina la via per avere uno sguardo curioso sul mondo.
Il metodo della Montanari quindi, rispetto alla tradizionale costruzione di un personaggio, è sostanzialmente diverso. Questo spiega il fatto che l’attrice prenda spunto dal mondo vegetale o da quello animale, come lei stessa spiega durante l’intervista. Lasciando aperte le porte della percezione, si rendono possibili infiniti collegamenti e i contorni del personaggio si dilatano, condensando al tempo stesso questo metodo di rappresentazione. La forza della recitazione di Ermanna Montanari deriva proprio dal fatto che riassume in sé la molteplicità degli elementi cui si è ispiratata nel suo processo creativo rendendosi un’allegoria vivente.
Secondo la mia opinione personale il metodo di ricerca della compagnia e quindi i suoi sconfinamenti, fanno sì che nella messa in scena non si rappresenti il personaggio dell’Avaro, ma una figura che incarna l’Avarizia.
Non vive nel corso dello spettacolo il personaggio scritto da Molière, ma una sua trasposizione, che deriva dall’astrazione delle sue caratteristiche che hanno compiuto il regista e gli attori nel farlo rivivere sulla scena. In altre parole invece di rappresentare oggi il personaggio dell’Avaro, le Albe rappresentano un’icona dell’Avarizia di tutti i tempi, vista oggi da quella particolare attrice.
È in questi termini che si può parlare di travestimento, infatti, mentre per Ida Marinelli la ricerca del personaggio passava attraverso la concretezza degli oggetti, approdando anche alla concretezza estrema di un personaggio/persona reale, in questo caso si approda attraverso il travestimento a un’allegoria o a un simbolo che non appartengono al mondo reale, ma che riassumono e incarnano, trasponendoli ed amplificandoli, alcuni elementi della realtà.
Questa è anche la motivazione della potenza evocativa dell’interpretazione della Montanari, che racchiude in sé la molteplicità del processo da cui è nata. Trattandosi di un’allegoria non ha nessuna importanza che sia un uomo o una donna a interpretarla, ma è necessario che rimandi e susciti quel sentimento, in questo caso quello dell’Avaro. Per questo motivo il fatto che Ermanna Montanari interpreti un personaggio maschile, mi sembra secondario rispetto al fatto che interpreta qualcosa che non è umano. I contorni umani già labili mi sono sembrati sfumare del tutto quando durante l’incontro abbiamo visto il filmato del monologo principale del protagonista, e certamente ha contribuito a formarmi questa idea l’uso che la Montanari fa della sua voce.
Su quest’argomento l’attrice si sofferma molto a lungo.
Siccome come lei afferma: “La vocalità contiene in sé la possibilità di più corpi, è necessario sceglierne uno”, per trovarlo l’attrice afferma di lasciarsi guidare dal suo timbro. In questo caso ha seguito il processo della sottrazione per far sì che la voce fosse secca e afona. Lo strumento vocale, prediletto dall’attrice in molte occasioni, assume ancora più rilievo nell’Avaro poiché il protagonista lo utilizza come strumento di potere sugli altri, avvalendosi per fare ciò di un microfono che funge da arma nei confronti del prossimo. L’ aspetto “carnale” del personaggio viene efficacemente espresso dalla sua voce, piuttosto che dal corpo o dal modo di muoversi, la voce è l’elemento che incarna l’Avaro tutto, sia nel corpo sia nel suo carattere.
Ermanna Montanari ha illustrato il suo metodo di lavoro quando deve interpretare personaggi maschili e non. Per finire direi che gli sconfinamenti dell’attrice della compagnia delle Albe possono essere considerati come una possibile declinazione del travestimento, a dimostrazione che quest’ultimo è ancora oggi uno strumento utile e praticabile per il teatro.
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