Diplomato all’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, ha lavorato al cinema con Marco Tullio Giordana in “La meglio gioventù”, con Ridley Scott in “Hannibal”, con Luigi Magni ne “La carbonara”. Protagonista di diverse fiction di Rai 1 tra cui “Alcide De Gasperi, l’uomo della speranza”, diretto da Liliana Cavani e “Paolo VI”, diretto da Fabrizio Costa. Ideatore e interprete di spettacoli teatrali, di cui l’ultimo, “L’ingegner Gadda va alla guerra”, ha vinto il premio Ubu come miglior spettacolo del 2010, grazie anche al parere positivo di Franco Quadri, recentemente scomparso, considerato da molti il più importante critico italiano. Questa, in sintesi, la carriera di Fabrizio Gifuni, in scena all’Arena del Sole di Bologna, durante il primo week-end di aprile. In occasione di questa ultima tappa della sua tournèe ha incontrato gli studenti dell’Università, il 2 aprile, ai laboratori DMS.
Relatore è Gerardo Guccini, docente di drammaturgia presso il DAMS di Bologna, che parte facendo riferimento allo spettacolo precedente, “Na specie de cadavere lunghissimo”, rielaborazione di Gifuni da Pasolini, nel quale si parla del nuovo fascismo dell’Italia postbellica, quello del consumo e della propaganda. Nell’“Ingegner Gadda va alla guerra”, invece, si parla del primo fascismo. Seguono delle considerazioni: “Forti istanze visive, futurismo giocoso con forte caratterizzazione corporea, attenzione al rapporto col pubblico, che si coglieva, a esempio, dagli intensi sguardi lanciati verso la platea, quando qualcuno tossiva”.
Gifuni: “In questo spettacolo, in particolare, sentivo la necessità di porre al centro dell’attenzione il ventaglio di possibilità di movimento del corpo, per bilanciare il peso delle parole. La necessità di mangiare le parole, dopo averle fatte suonare ad alta voce durante le prove, andando a liberare significato e significante, che difficilmente si colgono nella lettura a bassa voce. Il corpo aggiunge significato alle parole. Dove queste non arrivano, c’è il corpo. Io e il regista (Giuseppe Bertolucci, ndr) non volevamo una partitura di gesti già strutturata, ma vedere come la parola, attraversando il corpo, cambia, a seconda delle condizioni, dell’umore dell’attore”. Riguardo al rapporto col pubblico, Gifuni spiega che è legato al suo modo di intendere l’esperienza del teatro, uno dei pochi luoghi all’interno dei quali una comunità può condividere la conoscenza. Il teatro, oggi, può essere decisivo, ritrovare un ruolo rispetto a ciò che accade. Il teatro è rito, è “atto sacrale di conoscenza”, sosteneva lo stesso Gadda, va fatto insieme al pubblico, che non deve essere passivo, come davanti alla tv. “Infatti delle volte è accaduto”, racconta, “che ci fosse uno spettatore in sala, che mandava messaggi dal cellulare durante lo spettacolo. Io lo apostrofavo chiedendo la sua attenzione. Alla fine della prima parte dello spettacolo”, sottolinea Gifuni, “chiedo al pubblico a cosa possa servire ciò che è accaduto fino a quel momento. Gli domando se l’attore è solo una puttanella o qualcuno che spinge a riflettere”.
Guccini chiede, poi, in che modo questi aspetti vengano gestiti dalla regia. Bertolucci inizia dicendo di aver sempre preferito la forma del monologo perché la considera pre-teatralità o pura teatralità, un dialogo tra attore e regista, che a loro volta, poi, dialogano col pubblico. Durante la costruzione dello spettacolo avevano raccolto molto materiale visivo, ma successivamente hanno deciso di non utilizzarlo per evitare la riproposizione della passività della tv e focalizzare l’attenzione su corpo e voce dell’attore.
Guccini: “Fabrizio, come tutti sappiamo sei attore di teatro come di cinema. Ritieni che uno dei due mezzi ti sia più confacente?”
Gifuni: “Il teatro. In particolare la modalità di lavorare a teatro con la quale ho costruito i miei spettacoli, da 10 anni a questa parte, perché costruisco il testo, scegliendo le parole da cui mi sento rappresentato, i temi che mi stanno a cuore. L’interpretazione è solo la punta dell’iceberg. è un forte stimolo per esprimere le mie possibilità creative. Ho scelto Pasolini e Gadda perché credo aiutino a capire perché si è arrivati all’oscenità dei tempi attuali. Il primo, in particolare, ha denunciato il genocidio della cultura, si sentiva fuori dal tempo, non capito. Criticava la società dei consumi e della spettacolarizzazione, esistente già allora, ma dal ’75 la situazione è molto peggiorata. Gadda ha scritto “Eros e Priapo” nel ’45 creando un corto circuito con l’attualità, a causa dell’attrazione che il popolo ha verso i personaggi narcisisti e per il fatto che l’umanità cada ciclicamente in periodi bui della storia. Se il teatro è conoscenza collettiva, il lavoro sulla drammaturgia permette all’attore ad accumulare conoscenze che gli serviranno nell’atto teatrale. Il teatro deve avere efficacia, lo spettatore deve essere cambiato almeno un po’. Penso che il pubblico debba essere più esigente, cioè esigere di non essere semplicemente consolato, ma ricevere qualcosa”.
Guccini: “Ho avuto l’impressione che la seconda parte dello spettacolo fosse assimilabile al teatro di narrazione.”
Gifuni ha spiegato che, nonostante si rivolgesse direttamente al pubblico, non riteneva che ci fossero affinità con quella tipologia di teatro, che non ama particolarmente. “Come spettatore non voglio vedere solo un corpo seduto su una sedia. Inoltre, a mio parere, nel teatro di narrazione si nasconde il pericolo del principio di autorità, per cui sembra che chi è sul palco abbia compreso una verità e voglia spiegarla agli altri. Questo porta il pubblico a essere passivo e concordare su quanto viene detto. Non c’è spazio all’ambiguità. Mi è capitato più volte, con questo spettacolo, che qualcuno, dalla sala, si rivolgesse a me mettendo in dubbio che le parole che pronunciavo fossero di Gadda e, di conseguenza, nasceva una discussione.
In conclusione Marco de Marinis, presidente del corso di Laurea Magistrale di Discipline dello spettacolo dal vivo di Bologna, domanda a Gifuni: “Enzo Moscato e Fabrizio Gifuni, diversi per formazione. Moscato, nell’incontro tenutosi qui due giorni fa, ha affermato di ritenersi fortunato per il fatto che nessuno gli abbia insegnato a recitare. Lei, al contrario, rivendica l’esperienza in accademia. Un’altra cosa: credo che l’uso che fa del corpo in teatro derivi dal metodo Costa. Lo conferma?”.
Gifuni: “Credo che le scuole siano importanti, soprattutto per gli attori. Nel nostro paese si pensa che tutti gli uomini siano attori sul palco del mondo. Molti registi importanti hanno alimentato strumentalmente la vulgata per cui l’attore intellettuale perde spontaneità, in modo che potessero esercitare indisturbati il proprio potere decisionale. Bene e de Berardinis prima di creare il proprio teatro hanno studiato in Accademia. Per rompere delle forme, bisogna conoscerle”.
Mariangela Basile
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