domenica 22 aprile 2012

Dossier Premio Scenario 2011: recensioni, interviste e racconti

Recensione
I due vitelli di InFactory: giovani trentenni di oggi
di Josella Calantropo

È al vita che si fa teatro, ancora una volta. Sono le paure vere di due trentenni messe in versi. Sulla scena di InFactory vengono esplorate le vite di due vitelloni cresciuti tra il delirio di onnipotenza per la possibilità di sognare e il disicanto della realtà. Due ragazzi degli anni ’80 che avevano creduto nella speranza del futuro, con l’illusione che tutto sarebbe stato possibile, bastava volerlo fortemente. Due giovani, adesso trentenni, che si trovano soltanto un pugno di mosche in tasca. Ingannati, delusi, impauriti. Senza nessun orizzonte, che si accontentano di lasciarsi vivere, che hanno come unica prospettiva quella del macello che presto o tardi li vedrà  adagiati su vassoi di polisterolo confezionati con abbondante cellophane.
La Compagnia Teatro/Stalla Matteo Latino vince il Premio Scenario 2011 con la seguente motivazione:
“La condizione dei trentenni esplorata, allusa, svelata con crudeltà e poesia attraverso la metafora di due vitelli a stabulazione fissa prossimi al macello. Un dialogo che non avviene, che è esposizione frontale, danza riflessa su schermi virtuali, esercizio solitario di una poesia raffinata, di cui i due attori si fanno tramite per scoprire risorse lessicali, metriche, timbriche di una lingua che trova un’inedita cittadinanza sulla scena giovanile.
InFactory nasce al teatro per vie originali e impreviste, che rielaborano la biografia e la letteratura, il mondo delle immagini e le nuovissime risorse della comunicazione interattiva per farsi lente di ingrandimento su uno spaccato generazionale sul quale si sospende il giudizio ma si aprono molte domande. A partire dalla questione, implicita eppure lacerante, di come conquistare finalmente l’uscita verso la campagna aperta, ovvero verso un futuro di libertà e realizzazione personale.”


Matteo Latino, autore, interprete e regista, riesce a raccontare quello che molti suoi coetani non riescono a razionalizzare. Utilizza i mezzi del teatro, e lo fa con consapevolezza. Nonostante questa sia la sua prima vera regia, si intuisce, ancora in germe, sensibilità e destrezza per i mezzi del mestiere.
La sua scrittura è incalzante, poetica e concreta. Procede per frasi che non aprono un dialogo drammaturgico; rimane un monologo diviso tra due attori. Le parole come lance vengono lanciate in avanti verso la platea.  La scena è funzionale e coerente al racconto non usa fari o luci esterne, la illumina sempre dall’interno, e ci restituisce il punto di vista dei due vitelli chiusi nella stalla. Il suo compagno di palco è Fortunato Leccese, in sintonia e partecipe del lavoro. I due performer si muovono ritmicamente , accennando a movimenti di danza, che scandiscono la recitazione, ricordando gli scatti inconsulti dei vitelli chiusi nei recinti.

Intervista
InFactory prima e dopo Premio Scenario: una chiacchierata con Matteo Latino
di Josella Calantropo

Matteo Latino, giovane attore di 30 anni di Mattinata del Gargano e trapiantato a Roma, ha vinto il Premio Scenario 2011 insieme a Fortunato Leccese - suo compagno di scena – con lo spettacolo InFactory. Lo intervistiamo per cercare di capire come ha vissuto l’esperienza di Scenario e per farci raccontare la sua storia.

Come è nata la Compagnia? È nata ad hoc per il Premio Scenario?
Sì e il progetto della compagnia l’ho ideato io.

Ma lei recitava prima? Era attore in qualche altra compagnia?
Io e Fortunato (Leccese, ndr) avevamo fatto la stessa scuola.

Cioè quale?
Il Centro Internazionale La cometa a Roma.

E da chi è diretto?
Da Lilli Cesare e Gianfranco Isernia, e quindi noi ci eravamo conosciuti in quella occasione. Poi la Compagnia Teatro/Stalla anzi esattamente l’ Associazione promozione sociale non profit Teatro/Stalla  è nata a causa del Premio Scenario e infatti è successo dopo.

In che senso? Avete costituito questa compagnia per partecipare a Scenario?
Noi abbiamo partecipato a Scenario, come molti partecipano, senza sapere se avremmo vinto e senza neppure porci il problema. Solo che una volta vinto il Premio abbiamo dovuto sistemare burocraticamente questa condizione.

Quindi in pratica InFactory è la vostra prima opera?
Sì, sì!

E voi avete fatto tutto: drammaturgia, scene…?
Io ho prevalentemente curato la regia, il soggetto, le scene e ho scritto il testo. Poi insieme a Fortunato nel mettere in scena si cercava di capire più o meno l’utilizzo degli strumenti come potevano essere utilizzati. In più c’è un pezzo all’interno dello spettacolo che ho chiesto a lui di elaborare emotivamente sul suo percorso personale di vita. Lui ha buttato giù delle cose scritte e poi man mano lo lavoravamo insieme e subiva delle trasformazioni e degli adattamenti. Per quanto riguarda le scene abbiamo fatto un po’ di necessità virtù: venivano a mancare le persone, non potevamo pagare nessuno per mancanza di fondi e quindi eravamo noi stessi a dover mettere la musica, accenderci le luci. Questo autogestirsi però mi piaceva moltissimo esteticamente: un attore che si accende la lampada e attacca il monologo secondo me è molto teatrale.

Di cosa parla Infactory?
È la storia di due vitelli che vivono la condizione di stabulazione fissa, cioè una condizione di staticità, convinti che dopo questa costrizione, fermi a mangiare, un giorno arriveranno alla libertà, quindi al pascolo. Io però sono partito da un’altra suggestione ovvero: sono consapevoli che un giorno andranno al macello? Questo è frutto della mia esperienza personale: i miei genitori hanno un agriturismo con vitelli, con un macello all’interno delle stalle. Mentre passavo per vari motivi davanti a questi vitelli mi domandavo: loro sanno che un giorno saranno protagonisti di quella stanza? Da qui nasce l’idea. E ho iniziato a scrivere.

Come è iniziato il lavoro?
Abbiamo cominciato ad andare nelle stalle a fare un percorso di studio e di osservazione dei vitelli. È stato un periodo molto importante perché man mano che si stava lì abbiamo cominciato a riconoscerci al posto dei vitelli. Così si è capito che il vitello poteva essere una grande metafora della nostra condizione. Mi accorgevo che emergeva sempre di più l’immagine dei vitelli-ragazzi. Poi ci siamo bloccati, anzi ho sentito la necessità di bloccare. Mi rendevo conto di avere esaurito tutte le immagini e tutte le emotività che potevano servire a creare e dovevo fare una pausa lunga di riflessione per ripensare a tutto quello che avevamo fatto fino a quel momento.

Come e perché siete ripartiti?
Perché ero incuriosito dal linguaggio e proprio da lì ho ricominciato. Stavo andando a caccia di parole che ci dessero la sensazione di puzza nel momento stesso in cui si pronunciavano. Cercavo parole con un suono particolare, con una metrica che mi permettesse di imitare il verso dei vitelli; volevo cercare e trovare delle parole da far suonare in bocca all’attore che potessero dare la sensazione del muggire. Mettendoci in bocca le parole, ruminandole, digerendole, si capiva quale parola era meglio tenere, quale era meglio lasciare. Ero incuriosito di capire cosa si potessero dire due vitelli. Ed è una cosa che ancora ora mi accompagna, anche se sento i gabbiani - perché adesso in città ci sono i gabbiani - mi chiedo chissà cosa si stanno trasmettendo, e allora mi immagino dei dialoghi…
Ma di quale parte di Roma siete?
Pigneto, dove c’è il mercato, e lì ci sono i gabbiani che rubano il pesce.

Cercavate di capire cosa si potessero dire i due vitelli, ma in realtà non c’è nessun dialogo nella drammaturgia...
Esatto, perché mi sono reso conto che questi due vitelli vivevano una forte solitudine e così ho mi sono immaginato che questa solitudine si poteva raccontare con una forma monologante e non attraverso il dialogo, anche perché il dialogo non si riusciva a creare. Primo perché non mi sento pronto, maturo al punto giusto di gestire registicamente un dialogo; e poi perché accresceva l’emotività l’idea che questi due vitelli potessero stare in una condizione isolata, statica. Infatti tutta la ricerca che ho fatto di immagini, di musiche, di luci era in funzione del fatto che volevo raccontare due solitudini.

Come vi ha aiutato il Premio Scenario?
Con la costrizione dei “cinque minuti”. La prima fase da presentare al concorso è un pezzettino dello spettacolo che sia appunto di cinque minuti, poi si passa alla presentazione dei “venti minuti” che è la fase che verrà premiata e solo alla fine si arriva a poter presentare lo spettacolo finito. Il primo segno lo abbiamo messo quando ci siamo dati il limite dei cinque minuti perché sapevamo che lì dovevamo mettere un seme, dovevamo scegliere dei segni attraverso i quali poi comunque raccontare una storia. Quando mi sono trovato di fronte a questo limite-occasione sono nate le scatole, sono nate le lampade e le maglie scritte. Dopo aver passato la fase dei cinque minuti che il Premio Scenario ci aveva tra virgolette imposto, siamo andati avanti per progettare i venti minuti. Procedendo così ci rendevamo conto che stavamo scoprendo un linguaggio. Anche se potrebbe sembrare un lavoro molto individualistico in realtà non lo è. Perché attorno a uno spettacolo lavora tutta la gente che permette e mette in condizione chi scrive, chi fa regia, chi sta in scena di fare questo. Io scrivo il pezzo, ma capisco che il pezzo è completo quando ci sono una serie di persone che partecipano alla realizzazione di quel pezzo: non è un romanzo!

E il dopo Premio Scenario come sarà?
Scenario non ci mollerà mai, perché è nel loro interesse curare gli spettacoli. Ma forse finché siamo dentro Scenario siamo protetti, sembra che tutto sia possibile. Poi si esce e immediatamente bisogna fare i conti con la realtà: con i direttori dei festival che non hanno i soldi, con i teatri che hanno paura di investire in una giovane compagnia. Questo è un problema con il quale mi sto confrontando molto in questo periodo: perché finché c’è Scenario ci sono state delle date, degli spettacoli da poter vendere, delle persone vere a cui farlo vedere, ma poi come fare per diventare professionisti? Come diventare respondabile della propria professione? Queste sono le cose sulle quali una compagnia nelle nostre condizione deve cominiciare a ragionare.

E dopo InFactory? Quali sono i progetti per il futuro?
L’adattamento cinimatografico di InFactory, al quale sto già lavorando e che sarà completamente un’altra cosa: altri corpi che raccontano con una voce off tratta dal testo, ma nel Parco Nazionale del Gargano, riportare degli elementi che fanno parte dello spettacolo, ma pensando di coinvolgere anche persone del posto. È come se potesse precedere InFactory o seguirlo. E poi abbiamo il fumetto da pubblicare.

Recensione
Due passi sono: un candido balzo verso la felicità
di Rossella Menna

Un ritaglio di pavimento a scacchi. Due sedie colorate. Un filoncino di pane, un blister di pillole-cibo, giornali. Un fiore di velluto il cui gambo può essere allungato all’inverosimile. Una lampada, un cuscino.
Due passi sono, per balzare fuori dalla scatoletta in cui vivono Pé e Crì.  Due passi per uscire da un microcosmo in cui la natura non è che un fiore finto, in cui non si vedono le stelle, in cui abbracciarsi non si può perché non è igienico e accarezzarsi diventa un’operazione che necessita di guanti sterili, in cui per sposarsi non si deve andare in chiesa ma in banca. Ma se è vero che dai diamanti non nasce nulla, e che non si può apprezzare un mare che si muove se non lo si è visto prima da lontano piatto e privo di vita, allora il carillon che imprigiona i due piccoli amanti è una soglia, un’anticamera della vita vera in cui è possibile immaginare lunghe braccia che conducano fuori mani libere di toccare e in cui si sogna un figlio e un cane.


Due passi sono per “sognare davvero”, per infilarsi scarpe riposte da tempo e attraversare la soglia della felicità, per tirare fuori da un cuscino un velo bianco e un abito da sposa e scambiarsi inedite promesse d’amore al gusto di poesia.

Uno spettacolo delicatamente ironico. Minuto e perfetto come una bambola di porcellana dal viso levigato. La coppia Carullo-Minasi racconta la rivincita di chi, pur avendo visto la morte, si è tuffato nella vita. Una vera rarità nel teatro del pessimismo. Meritatissimo dunque il “Premio Scenario per Ustica 2011” che si sono aggiudicati i due artisti messinesi.

Il racconto di Carullo-Minasi per Voci dalla Soffitta
Due passi sono prima e dopo Premio Scenario
di Cristiana Minasi e Giuseppe Carullo

Il nostro incontro risale a circa sei anni fa a Messina, avendo collaborato entrambi con due compagnie di ricerca della città. Così, ci si è cominciati a frequentare in teatro e in quei suoi dintorni fatti di parole e poesia; così, per gioco ed incanto, si è cominciato a disquisire e a valorizzare l'uno la poetica dell'altro, a condividere desideri e voglie reciproche. Dopo diverse esperienze comuni –tra cui Fragile di Tino Caspanello- e gli instancabili confronti per i diversi spettacoli insieme visionati, è nata l’idea  di elaborare  un possibile gusto condiviso da mettere al più presto in "atto".

Per Due passi sono, prima nostra vera opera, siamo stati mossi dalla forte necessità di concretezza, di riscattare la voglia e la forza di essere vivi. Volevamo, tramite il limite in cui ci siamo trovati immersi per uno stato di momentanea difficoltà fisica di Giuseppe, raccontare l'indescrivibile forza di cui è portatore l'uomo. Più che per concetti, abbiamo avuto l'intuizione di operare per giochi di relazione, d' improvvisazione scenica che, poi, hanno costituito la base di elaborazione del testo.

In tal senso è stato fondamentale, oltre che estremamente formativo, il percorso di  elaborazione del lavoro per tramite delle tre fasi di Scenario. Il premio “obbliga” ad una continua  messa in discussione del materiale: passare dai 5 ai 20 minuti sino al raggiungimento della definizione dell’intero spettacolo, significa sorprendersi di continuo circa le potenzialità di un percorso che, se sinceramente vissuto come tale, deve nutrirsi dei principi del processo e non dei principi meramente risultativi. Abbiamo proceduto per sottrazione: più si è tolto, più ci è stato restituito dalla logica intrinseca allo spettacolo medesimo. In tal senso, nonostante si fosse partiti dal tema della malattia, della quotidianità patologizzata in vista di un’ipotetica salvezza fatta di prescrizioni e negazioni, lo spettacolo è misteriosamente  -quasi per opposizione- approdato  ai temi dell’amore, della creazione, della libertà, della conoscenza, del potere desiderare nonostante l’apparente impossibilità.

I molteplici confronti con la giuria, con gli spettatori  dei 20 minuti della finale di Santarcangelo, con il pubblico che ha visionato al Franco Parenti la prima dello spettacolo intero, con i giornalisti, con le interviste post spettacolo di questa attivissima tournée, hanno fatto sì che lo spettacolo crescesse sempre e di più non tanto nella forma, ma nei contenuti. Al livello orizzontale della vita/non vita  dei due protagonisti, si è reso necessario aggiungere una linea verticale “filosofica/clandestina” che creasse un congiungimento con le vicende dell’amore. Prendendo in prestito l’immagine della scala infinita del Simposio di Platone, il nostro testo passa in rassegna - frammento per frammento, scalino per scalino- piccoli ma infiniti varchi di luce, molecole di polvere di stelle che illuminano dando luogo, forma, diritto e giustezza all’aspirare ad un percorso di conoscenza condiviso. Amore non è vicenda personale tra due, sia pure formalmente appaia come tale, ma è vicenda universale, che deve attenere poeticamente ciascun uomo.

Quanto alla nostra vittoria di un premio dedicato all’impegno civile, è  motivo di grande orgoglio poter avere fatto coincidere il nostro impegno autorale con l'impegno del risveglio delle coscienze. Crediamo che solo questa sia la strada possibile in un'era quale la nostra, volta all'aggregazione acritica e al disconoscimento dell'attività del pensiero. Il teatro altro non è che impegno civile, il nostro è il più bel premio che il teatro ci poteva consegnare. Il teatro è per tutti, il teatro è di tutti.

Questo spettacolo è un inno alla semplicità, vuole glorificare la vita e lo fa parlando del desiderio. Ma figlio di questo spettacolo non è il desiderio dell’effimero, della cruda materia ma il desiderio fatto di valore, di quel valore unico che è la vita. Amore è creazione: ci son mille modi di creare, bisogna a ciò educarsi, bisogna trarre insegnamento dalla vita per giustificare la vita stessa, di ciascuno, per tutti.

È solo in questa direzione che stiamo compiendo il passo per la prossima produzione.

Recensione
Ritagli pop del bel paese
di Rossella Menna

Continua nel, solco già tracciato dalla coppia Carullo-Minasi e dal Teatro Stalla di Matteo Latino, la rassegna di spettacoli presentati in vari spazi teatrali bolognesi, nell’ambito del progetto Interscenario, che vede protagonista, per il terzo appuntamento, sul palco dei laboratori Dms, L’italia è il paese che amo, della compagnia ReSpirale Teatro. Lo spettacolo, che ha guadagnato una segnalazione speciale al Premio Scenario 2011, prosegue, infatti, la riflessione già avviata, in forme molto diverse, dalle altre due formazioni, sull’inadeguatezza della società in cui questa generazione di giovani si trova a vivere. Questa pièce, nello specifico, è una denuncia fortemente politica di un senso di spaesamento che opprime le nuove leve, costrette a una corsa sfrenata alla ricerca di qualche certezza cui aggrapparsi, che le intrappola in una fissità ancora più radicale.

La barricata di cuscini che accoglie il pubblico, metafora dichiarata del Muro di Berlino, ma anche di barriere metafisiche di qualsivolgia tipologia, cade quasi subito, infranta con entusiasmo dai quattro attori che vi erano intrappolati. Un entusiasmo destinato a spegnersi rapidamente perché lo sfondamento del simbolo di un’epoca ritenuta ormai superata non si traduce nel radicale cambiamento sociale in cui si sperava. «Si cambia faccia, si cambia colore. Tutto cambia perché tutto resti com’ è». È da questa riflessione, dal sapore già noto, che parte lo spettacolo del giovane gruppo bolognese.

Una messa in scena pseudo-dadà, in cui, da un cappello immaginario riempito di citazioni dell’Italia anni ’90, la regista, Veronica Capozzoli, pesca alla rinfusa frammenti ritagliati da tanti giornali diversi e li incolla, così come saltano fuori, sulla tela bianca del palcoscenico.

La metafora non è azzardata dal momento che lo spettacolo è proprio un collage multiforme di ritagli pop accostati per contrasto, senza alcuna linearità narrativa, e riempito da personaggi solo abbozzati, privi di tridimensionalità.


La scena è un frullatore a pieno ritmo che macina e rigurgita rapidamente un’immagine dietro l’altra. È un’infilata di luoghi comuni, dove la crisi dei partiti e il Craxismo s’intrecciano alla musica della soap opera Beautiful. Dove alla riflessione su Tangentopoli, segue una famiglia tipo, con tanto di madre che si spalma la crema alle mani, stravaccata sul divano e imbambolata di fronte alla televisione. E ridono, tutti, da copione, insieme a risate registrate. L’esultanza per un gol della nazionale di calcio sulle note di Notti magiche, il rumore delle bombe, la voce da telegiornale che racconta la guerra in Medioriente, e quella di Falcone che apre uno spiraglio alla speranza. E poi una palestra immaginaria per il fitness frenetico di automi sorridenti votati al culto imposto dell’estetica perfetta, trasformata, in un rapido cambio di scena, nello studio del noto quiz “Ok il prezzo è giusto”. Immancabile la scena della discoteca. Simbolo estremo dell’alienazione moderna, ospita un singolare dj-vocalist che incita le sfrenate danze con slogan da comizio e parole rubate a Berlusconi.  E per concludere, una canzone di Nino D’Angelo a fare da sfondo a un’inquietante Macarena ballata da corpi anonimi coperti in volto da maschere animali.

A puntellare qua e là la rapida sequenza visiva, alcuni squarci lirici: piccoli monologhi infarciti di retorica, amplificati da un microfono bene in vista, che rivelano tutta l’intenzione politica dello spettacolo.

Uno spettacolo che, pur reso piacevole da alcune originali invenzioni, vacilla sotto il peso dell’ingenua costruzione registica e dell’evidente acerbità di un progetto tenuto insieme, per un pelo, dall’urgenza espressiva di quattro giovani interpreti, i quali lasciano intravedere, in ogni caso, serie possibilità di evoluzioni future.

Recensione
Spic & Span di Foscarini-Nardin-D’Agostin: manichini danzanti di colori pop
di Enrico Rosolino

“Non facciamo pubblicità occulta, provate a vederci da vicino!”. I Teatri di Vita offrono spesso interessanti sorprese a un pubblico curioso e aperto. Un titolo insolito campeggia in questa piovosa metà di aprile sul cartellone informatico del teatro: Spic & Span. No, non è uno scherzo! Lo spettacolo tende sin dal suo inizio a farsi portavoce di quella forza propulsiva riconosciuta al notissimo detersivo inventato dall’americana Elizabeth McDonald e cioè “tirare a lucido”: lo spazio e la danza con le loro esigenze. Tre ottimi danzatori- performar, i giovani Francesca Foscarini, Giorgia Nardin e Marco D’Agostin, riempiono concretamente la scena con i lori corpi vigorosi e sapientemente agili. La loro giovinezza imprime all’intera visione un gradevolissimo impatto. Il candido palcoscenico funge da abbagliante set fotografico, ma il sentimento estetico va a collocarsi nell’uso traslitterante di una sgargiante moltitudine di colori pastello: svuotanti negli abiti alla moda dei tre danzatori, liberatori come bolle di sapone scaturite da un mondo di pensieri e sensazioni inespresse nei palloncini che gonfiati dai tre vengono lasciati impietosamente sgonfiare in lunghi ghirigori per aria.

Tre corpi belli e dinamici, narcisisticamente devoti al voyeurismo, e incredibilmente aizzati negli atteggiamenti e nelle pose divistiche si esibiscono in un divertissement nevrotico ed esagitato di movimenti. La materialità del loro moto scaturisce da auto costrizioni e impulsi del tutto esterni e votati a una resa esteticamente graziosa e ciò si palesa in ogni parte della “narrazione” coreografica: così nella rocambolesca dimensione – nella forma di una concitata toletta – caratterizzata da verticalismo parallelo al terreno, come nella ricercata dimensione “intermedia” (tra l’inginocchiato e il seduto) che da un lungo canone di spaccate laterali e camminate sui glutei - all’indietro e in posizione a squadra - sviluppa poi un inviluppante orgiastica serie di abbracci e sovrapposizionamenti plurimi. Infine, nella spiccante fase verticale dominata com’è dai vertiginosi grand developpé che aprono ulteriormente, e sempre più ritmicamente, le tre belle figure e dallo scalpiccio della corsetta nervosa (come individui stressati nelle loro pregevolissime routine lavorative) in girotondo associato, idealmente, ai conseguenti movimenti di braccia simili ad applausi, prima ridicoli e quasi isterici poi strategicamente cool.


La vita sussultoria e tormentata dei tre bellissimi in scena deve essere, per esigenze di marketing tirata ulteriormente a lucido, e non basta l’imposizione rigorosa e quasi brutale di una serie di movimenti ancora a terra accompagnati da una distorta marcia militare. Non è lecito intravedere un disagio psicologico tra le pagine patinate di un fascinoso servizio d’Haute Couture. Ecco dunque materializzarsi il nostro miracoloso detersivo che viene ingurgitato nervosamente e a canone (quasi fosse una coreografia da balletto classico) a lunghi e grandi sorsi dai nostri spossati, e sempre più svuotati, manichini danzanti. La ricercata pulizia e perfezione pare esser stata ritrovata. Lo stato di abnegazione al deteriorante ordine da esaurimento nervoso però conduce a un importante risultato reattivo. La vacuità si disperde; è nell’abbandono trascolorato di una penombra (fino a quel momento sconosciuta) che i tre, pur mantenendo un ricordo di ciò che sono e vivono, iniziano a intravedere scorci introspettivi di sé stessi. Dalle psicosi rotondeggianti, quasi rantoli pre-morte, nei movimenti sul fondo della scena, asserviti al clavicembalo elettronico di Matthew Herbert segue un intenso momento di riflessione corporeo-coreografica. Alle rapidità post-futuriste di un esterno sordo si contrappone l’immagine post-moderna di un dilatato movimento volto allo smascheramento. I tre danzatori, composti in triangolo, sfilano gli occhiali da sole che per tutto il tempo hanno nascosto i loro occhi e dunque la loro recondita interiorità. E ci guardano. Loro ci vedono e noi li vediamo (interamente, finalmente).

Il contrappunto musicale sembra inserire queste tre avvenenti corporature in altrettanti paesaggistici scorci d’umanità. Dai Tullipan del noto terzetto vocale femminile Lescano alla tribal house elettronica la descrizione dei danzatori si appiglia e accapiglia con la fenomenologia del trascorso, ritrovato e perso dell’umanità. Giorgia Foscarini con il suo caschetto biondo, le labbra in rosso fuoco da rossetto l’Oréal a lunga tenuta, e i fascianti occhiali da sole a mascherina appare vagamente emula della Lady Gaga del Pop. D’Agostin spicca per la sua longilinea prestanza e per il suo ottimo amalgamarsi, e al contempo risaltare, tra le co-interpreti. Francesca Nardin, seppur anche lei interessante e validissima nella resa coreografica, appare tuttavia poco appariscente nell’ambito delle tematiche portate avanti dalla performance. Sono comunque tre giovani talenti tumultuosi, ci aspettiamo buone nuove.

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