giovedì 10 marzo 2011

La Compagnia della Fortezza esplode in Un silenzio straordinario

Gli spettatori si accomodano lentamente nella sala dei Teatri di Vita a Bologna. Si vocifera, si incontrano amici, ci si racconta del 3 marzo appena trascorso e le ultime sulla politica: nel frattempo si cerca il proprio posto. Distrattamente si nota sul palco una scrivania disordinata con cassetti strabordanti bucce di banana e sul piano scartoffie accatastate. A completare la scena altri tavolini sui quali vecchie radio e registratori ci ricordano che lo spettacolo è liberamente ispirato all’Ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett. Si discute del più e del meno mentre si aspetta che si faccia buio in sala e che un attore cominci a parlare. E invece a luce piena entra Armando Punzo, drammaturgo e regista della Compagnia della Fortezza, alza un dito, guarda la platea chiassosa e come per magia uno splendido diminuendo avvolge il teatro. Un silenzio straordinario (titolo dello spettacolo) incombe ora su tutto, riempie la scena e dà inizio alla recita.

Ogni drammaturgia germoglia da un seme, da un input, da una cellula che avvia alla creazione di un nuovo lavoro. Questa volta Punzo pone le basi per lo spettacolo su una situazione irreale. La drammaturgia parte dal silenzio assordante del carcere affollato di Volterra. Ascolta attentamente: è come se qualcosa avesse tolto la parola a tutti i detenuti, come se qualcuno avesse spento le speranze di ognuno. È così, mentre i componenti della compagnia si interrogano sul cosa e sul perché di quello stato inverosimile, che arriva Krapp.

L’idea del drammaturgo irlandese Samuel Beckett lega perfettamente con gli ambienti, con le solitudini e le angosce di un carcere. L’assurdità del teatro beckettiano risulta drammaticamente reale e perfettamente calzante. Punzo si appoggia sulle spalle del gigante per far vivere in scena le giornate di un detenuto. Piene di vuoto, colme spesso di voci registrate: un’umanità che non riesce a rompere il muro della solitudine di una prigione.


 Sul palco Placido Calogero si esibisce in un monologo tragicomico. Lo storico attore-detenuto si muove dentro quella stanza che anche se non ha le sembianze di una galera ne condivide l’aspetto claustrofobico. Corre a farsi un giretto, ma poi deve ritornare al suo posto, dove altro potrebbe andare? Si fa forza con la sua voce, urlando, a volte, per sentirsi meno solo, forse, cercando di procurare almeno un eco, ma la camera-bunker è blindata anche per quello. Si ingozza di banane, accende le radioline: alcune gli ricordano la sua vita fuori da lì, con altre spera che il mondo libero, quello che non perde mai le previsioni del tempo, possa per un attimo entrare in quello spazio chiuso e isolato e accorgersi di quest’ultimo inedito Krapp. Il tempo sembra non passare mai, la routine è massacrante, le tre cose da compiere si esauriscono in breve e dopo non resta che fare i conti con il passato. L’attore si confonde così con la sua vera condizione di detenuto e pare abbozzare una confessione delle colpe commesse. Per tutto il tempo Punzo rimane in scena, in disparte, in penombra, a osservare la tragedia del quotidiano carcerario che si consuma sotto il suo sguardo impotente come quello dello spettatore e della società contemporanea.


L’esperienza della Compagnia della Fortezza inizia ventidue anni fa nel Carcere di Volterra da un’idea di Armando Punzo.
Da allora, l’attività teatrale nelle carceri si è notevolmente evoluta in Italia, grazie a un impegno sempre più generalizzato del mondo del teatro nei luoghi del disagio.
 In questo ambito, la Compagnia della Fortezza rappresenta ancora oggi un vero e proprio modello per i risultati ottenuti sia nel campo dell’intervento sui detenuti sia per l’alto livello raggiunto sulla scena.

Josella Calantropo

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