giovedì 14 marzo 2013

Intervista a Oscar De Summa - parte terza

F. A proposito di problemi d’identità, il fatto che tu abbia finito per fare Otello è casuale, perché all’inizio avevate un altro attore che doveva interpretare il protagonista, giusto?

O. Infatti, abbiamo avuto serissimi problemi con gli attori, che ci hanno portato infine a cambiare la struttura interna. Io dovevo essere Iago, avevo già fatto uno studio su questa figura di qualche mese, presentata poi a Napoli con successo. Invece Idris, l’attore africano del Gambia che ha lavorato con Armando Punzo, ha avuto problemi di salute; l’attore che lo ha sostituito ha avuto problemi a sua volta, e quindi abbiamo pensato che o era il ruolo a portare male oppure dovevamo modificare le relazioni nella struttura. A questo punto mi sono preso io l’onere e l’onore di affrontare questo macigno che è Otello, tutt’altro che facile. Tuttavia nel modo che abbiamo di affrontare Shakespeare, in cui la fedeltà è solo riguardo noi stessi, noi pensiamo i personaggi come ruoli fissi, come maschere, sono per noi univoci, monolitici. Quindi restituiamo Otello e Iago con poche sfumature, esattamente come vengono presentati i personaggi con le maschere. È proprio questa fissità dei caratteri a determinare delle situazioni al contempo teatrali e umane.

F. Rispetto ai personaggi-maschere, monolitici, mi è venuto in mente il momento in Amleto a pranzo e a cena del famoso monologo “Essere o non essere”, restituito quasi come puro testo: certo, in un primo momento la scelta sembra essere radicalmente anticonformistica, anche se poi il trattamento si rivela solo uno scherzo innocuo. Ci sono monologhi affrontati in maniera simile nell’Otello?

O. No, al momento non abbiamo quelli che chiamerei dei “controtempi”, ma solo delle “ossessioni”. Cerchiamo di riutilizzare l’idea dell’eco, tramite quelle che Peter Brook chiama “parole radianti”. Quasi sempre succede all’interno della tragedia che un personaggio dica una cosa e l’altro la ripeta, una struttura che poi ha ispirato ampiamente drammaturghi come Pinter e Beckett. C’è un certo punto in cui Otello dice: “Iago, mi fai l’eco?”

F. “Il fazzoletto, il fazzoletto!” Gli echi, le ossessioni sono visualizzate anche in scena, tramite un gioco evidente tra bianco e nero.

O. Infatti per rafforzare il contrasto tra bianco e nero l’idea iniziale era di usare un attore evidentemente nero, proprio perché certe cose non dette lavorano molto bene nel subconscio dello spettatore e mettono a nudo dei pregiudizi ancora molto forti, che ci impediscono di entrare veramente in relazione con altre culture. Le ombre in scena rappresentano la deformazione della realtà, la distorsione di eventi, quello che noi viviamo continuamente negli ultimi tempi. Iago fa proprio questo, e molti lo fanno con noi, non per ultimo i politici, che ci vogliono imporre il loro punto di vista, delineano una mappatura del reale per noi sicuramente limitante.

F. Direi che per concludere quest’intervista adesso spetta a te cercare di riassumere che cos’è per te Otello in un minuto.

O. “Essere ingannati davvero è meglio che averne solamente il sospetto” dice a un certo punto Otello e credo sia la verità. Si parlava prima di ombre: tutto lo spettacolo è pieno di ombre, noi abbiamo delle ombre in fondo, laterali, che si muovono contemporaneamente a quello che succede in scena. E sono ombre sempre distorte, diverse da noi, e questo è tutto quello che vive Otello e che potremmo vivere anche noi, cioè ombre terribilmente angoscianti e che ci fanno perdere il senso della realtà.

Fabio Raffo

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