sabato 30 marzo 2013

Gentilezza al capolinea. Un tram che si chiama desiderio di Antonio Latella

Una battuta, ferma e rivelatrice. Una battuta che si impone come una dichiarazione di poetica e immediatamente la comprensione della messinscena che Antonio Latella compie della celebre opera di Tennessee Williams, sembra aver trovato la propria via interpretativa: “Non voglio realismi”. Sono queste le parole pronunciate da Blanche, protagonista di Un tram che si chiama desiderio, in scena il 2 e 3 marzo a Pubblico, il teatro di Casalecchio di Reno.
La scelta di confrontarsi con un classico della letteratura teatrale come l’opera di Williams potrebbe sembrare un azzardo. Il rischio di essere travolti in quei vortici della memoria di cui un testo di tale portata è artefice, risulta concreto se si pensa sia alle storiche interpretazioni (da Marlon Brando a Marcello Mastroianni), sia alle rinomate regie (quella cinematografica di Elia Kazan o quella del nostrano Luchino Visconti) che hanno collaborato alla costruzione di una sua immagine quasi monumentale.
Tuttavia nella ricostruzione che Latella compie, delle sopravvivenze del passato rimane ben poco. Il testo, abilmente decostruito e purificato dalle imposizioni di una regola superiore, vive di forti scosse telluriche, movimenti interni che animano su tutti i livelli, da quello drammaturgico a quello scenografico, il ritmo di un’azione talvolta esplosiva, altre più introspettiva, eppure mai lineare. Sin dal primo istante ci confrontiamo con una regia che dialoga con l’intreccio, ribaltandone con maestria la narrazione. L’inizio coincide con la scena finale, ovvero con l’arrivo di Blanche all’ospedale psichiatrico in cui viene internata, e immediatamente lo spazio della messa in scena è quello della mente della protagonista, in cui lo spettatore viene proiettato, scoprendosi inaspettatamente testimone di una seduta analitica.


È affidato a una incantevole ed eterea Laura Marinoni il compito di condurci nei meandri più remoti del pensiero di una donna ormai frantumata, una donna dagli occhi vitrei e assenti, instabile, ha perso il centro, cade e sviene, una donna bugiarda, che finirà per abitare le proprie menzogne, bisognosa di un amore che mai riceverà. A manovrare le logiche del desiderio, quello della protagonista, già soffocato da un proibizionismo dal gusto tutto nordamericano, troviamo l’irruenza e la meschina virilità di Stanley, cognato di Blanche, interpretato da Vinicio Marchioni. L’incontro trai i due rompe qualsiasi parvenza di ordine che fino a quel momento inchiodava i personaggi ad un silenzio svilente; ciò che tale conflitto genera, mosso dalle redini di una sessualità esplosiva, rifluisce nell’odio, nel disprezzo, nella negazione dei sentimenti. È un mondo brutale, violento, i corpi reagiscono con un puro delirio, come in una caduta libera si divincolano tra gli elementi che occupano la scena: un frigo, una vasca da bagno, un letto, una porta, oggetti quotidiani di cui si consiglia di dimenticarne la loro funzione convenzionale. Le fragili strutture dei mobili risultano sventrate perché all’interno vengano inseriti amplificatori e ampi fari che investono con violenza il pubblico, come abbagli del pensiero. Ciò che viene a configurarsi assume tutti i connotati di una spazio della mente, quella di Blanche, senza dubbio.


Una mente contorta e labirintica come i mille cavi e microfoni che attraversano il proscenio, solcandolo con arroganza e ponendosi allo stesso tempo come prolungamenti delle vocalità degli attori. Latella compie una scelta molto significativa, colmando la scena fino all’inverosimile, archiviando, come reperti archeologici, oggetti simbolici di un’intera cultura, per restituire a quest’ultimi la responsabilità di una drammaturgia altrettanto densa.
Gli attori mostrano tutti una bravura smisurata. Stella (Elisabetta Valgoi), sorella della protagonista, con la quale l’unico rapporto possibile viene alimentato dal conflitto e dal paradosso, Mitch (Giuseppe Lanino) amico di Stanley ed infine Eunice (Annibale Pavone), la vicina di casa. Il ruolo interpretato da quest’ultimo è molto versatile, spesso lo ritroviamo muovere personaggi differenti, tutti inesorabilmente volti a fomentare il groviglio esistenziale di cui è intessuta la trama di ogni abitante della scena. Come una voce interiore, la figura del dottore, interpretato da Rosario Tedesco, segue Blanche come per proteggerla, orchestra i suoi respiri, la sua rigida compostezza lo relega ai margini dell’attenzione, straniero tra stranieri, razionale architetto di una cornice entro cui agisce con sottili interventi metateatrali. “Chiunque lei sia, ho sempre confidato nella gentilezza degli estranei”, sono queste le ultime parole di Blanche, lucidissima dichiarazione prima di abbandonarsi tra le sue braccia, consegnandosi alla pazzia come unica via di salvezza, atto eversivo verso una società che non vuole riconoscere le proprie nevrosi, che ha dimenticato la forza della gentilezza.



Elvira Venezia


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