lunedì 11 marzo 2013

Intervista a Oscar De Summa - parte prima


Fabio Raffo: Nell’Amleto a pranzo e a cena sottolineavi a inizio spettacolo che quell’anno erano usciti ben undici spettacoli sull’Amleto. Vista l’abbondanza di spettacoli shakespeariani, anche di Otello, nel teatro italiano, perché è importante per te fare Otello ora?

Oscar De Summa: Sicuramente c’è una questione molto pratica e legata all’economia, ovvero brutalmente la vendita dei titoli. In Italia c’è una difficoltà a vendere la nuova drammaturgia, perché non è stimata affatto, non è comprata dagli operatori di teatro e non è vista dagli spettatori. Quindi è molto più facile per il mercato poter immettere uno Shakespeare, un Molière, un Pirandello, un Goldoni. Però spesso, come succede negli ultimi trent’anni a teatro, un regista vende uno spettacolo, ad esempio Amleto, e poi fa come vuole, no? Da un altro punto di vista possiamo dire anche che quando uno lavora su Shakespeare, sull’Otello in particolare, deve individuare su di sé le motivazioni che ci portano ad essere falsi, a volere il male, a voler distruggere la bellezza. Viviamo in un mondo dove la bellezza viene distrutta costantemente, per il gusto stesso della distruzione, ma forse questa è una divagazione filosofica. Riassumendo, puoi prendere un testo a caso di Shakespeare e dentro ci trovi tutto, e forse è questa la bellezza che non può essere distrutta dei classici.

F. Certamente la motivazione pratica è stringente; in precedenza hai fatto lavori di natura completamente diversa, come il tuo Chiusi gli occhi.

O. Sì, io faccio uno spettacolo per cassetta, Shakespeare o un classico, poi una nuova drammaturgia, poi un classico, e così via, perché i mercati sono diversi: i mercati della nuova drammaturgia non ti permettono di sopravvivere, mentre i classici sì, magari fatti in un certo modo, sottolineandone l’aspetto comico e ricavandone la possibilità di entrare in contatto diretto con il pubblico. Questo è quello che mi piace, questa è la mia idea su come rendere attuali i classici.

F. Quest’ultimo aspetto sicuramente consente di dimostrare come in realtà il lavoro sull’Amleto prima e sull’Otello poi non abbia avuto esclusivamente una motivazione economica, ma anzi come nei due testi siate riusciti a trovare questa chiave comica, quest’idea originale di lavorare sugli stilemi della commedia dell’arte, con anche riferimenti all’attualità.

O. Per quanto riguarda l’Amleto a pranzo e a cena, più che parlare dell’Amleto noi in realtà abbiamo messo in scena una compagnia di commedia dell’arte che mette in scena un Amleto, all’interno del quale a sua volta si assiste all’arrivo dei comici che mettono in scena una tragedia. In sintesi, un complesso gioco di scatole cinesi. La nostra idea era quella di riproporre a nostro modo una delle particolarità del teatro italiano, la commedia dell’arte, ovvero la capacità di entrare in un rapporto diretto con il pubblico e al contempo anche il rischio dell’impresa economica. I commedianti dell’arte mettevano i soldi, tiravano su una compagnia, cercavano di accontentare il pubblico, ma ogni tanto riuscivano a distillare qualche goccia di poesia, e così facciamo noi, questa è l’idea di base. Ci è anche sembrato anche un modo di rendere evidente e rispondere a una crisi emergente e devastante, soprattutto nell’ambito teatrale. Dopo Amleto abbiamo cercato di mantenere la formula dal punto di vista della realizzazione, pensando agli attori come autori, o come diceva Leo de Berardinis, come jazzisti che fanno una jam session. In questo modo ci sentiamo molto più vicini agli spettatori, forse lo siamo meno rispetto ai nuovi operatori di teatro.
(Segue…)



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