domenica 10 marzo 2013

Il suono dell’Anima: le cinque voci di Carne Trita


Un tacchettio rapido e affannoso irrompe nel buio pesto della piccola sala InterAction dell’Arena del Sole, lasciando trapelare la presenza di figure sul palcoscenico dai movimenti piuttosto disordinati. La luce, poi, ne rivela l’identità: quattro donne (Irene Russolillo, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri e Maria Francesca Guerra) e un solo uomo (Fabio Pagano), dai costumi privi di particolare caratterizzazione, sono pronti a trasformare il consueto pubblico di spettatori in uno di uditori. Difatti, l’intera messinscena non prevede alcun dialogo o monologo. Le parole cedono il posto ai vagiti, alle urla, alle intonazioni di canto lirico e gli attori mutano la propria essenza sino a diventare puri strumenti concertistici.


Il filo rosso che lega l’intera vicenda è la vita quotidiana: le più consuete azioni del risveglio mattutino, sbadigliare e stiracchiarsi, vengono spettacolarizzate in una danza di blocchi corporei, pause della voce ben marcate e intensa espressività mimico-facciale. Poi è lo spavento a far da padrone sulla scena, manifestato superbamente dalla modulazione delle urla in tono acutissimo; ne conseguono dei gargarismi, emblema di quel bigottismo tipico della società contemporanea.
La bocca delle attrici lascia spazio anche alla sensualità, che si ravviva nelle tinte scarlatte del rossetto, accuratamente enfatizzato da una posa plastica che susciterebbe l’invidia persino della tanto amata Betty Boop. L’unico personaggio maschile fa il suo ingresso in scena attraverso dei passettini quasi impercettibili, pari a quelli di un automa, accompagnato dal canto lirico delle compagne che rimanda l’ascoltatore più esperto alle suggestive melodie del quartetto delle Faraualla.
Improvvisamente l’apparente pacatezza dei suoni e dei movimenti si altera, catapultando lo spettatore in una sorta di anime giapponese: Fabio si muove per tutto il perimetro del boccascena assumendo diverse posizioni di karate; Irene lo insegue, bisbigliando parole insensate; le altre tre donne danno vita a una danza forsennata dal sapore spagnoleggiante, parodia del flamenco andaluso. Solo una deliziosa canzonetta riesce a raffreddare l’esagitata atmosfera animata dai cinque personaggi, i quali si raggruppano gradualmente nell’estremità sinistra del palcoscenico e, attraverso una lenta e ancheggiante camminata, coreografano la falsità: sono sufficienti, infatti, tre passi in avanti per mutare lo stato d’animo delle attrici, che sciolgono il sorriso ammiccante da ragazza pin-up nel più isterico pianto di rassegnazione, per poi tornare alla fallace allegria.


In questo squarcio di quotidianità, che il genio creativo di Roberto Castello ha saputo portare in scena magistralmente, c’è ancora spazio per la voce e per la danza: nel lato destro del proscenio le ragazze si muovono in maniera rigida e di scatto, intervallando suoni gutturali di acida parvenza inquisitoria a vere e proprie dissociazioni di ogni singola parte del corpo. Le pause di questa robotica coreografia sono scandite da vigorosi «wow!», che vengono sopraffatti, dapprima, dalla fragorosa risata di Alessandra e poi da un’ennesima composizione coreutica a cui partecipano tutti i personaggi, che si contorcono in un mix di contrazioni muscolari e gestualità interrotte.
Il ritratto perfetto delle più recondite intimità viene completato dagli istinti primordiali, che tengono ben saldo il legame con il mondo animale da cui proviene il genere umano intero: il maschio regredisce allo stato di scimpanzé saltellante e le femmine non hanno pudore nel mostrare la tanto temuta quanto celata natura di serpi velenose.
Il confine tra essere e apparire è ormai labile e, dunque, Roberto Castello lascia allo spettatore la totale facoltà d’addentrarvisi, cullandolo con la flebile armonia di una nenia malinconica che accompagna la calata del sipario delle tenebre.

Visto il 13 febbraio 2013 all’Arena del Sole – Sala InterAction.

Marco Argentina

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