Interessante l'idea di riproporre la portata di quell'evento luttuoso in una versione trasgressiva e pop, traducendo il suo impatto emotivo e mediatico sulla società in un evento sportivo commentato da continui stralci di sentenza letti a voce piatta e monotona; motivo di riflessione anche l'eterno riscaldamento che conduce ai limiti dell'agire senza valicarli mai nel pieno del gioco, nel pieno dell'azione (sportiva ma anche teatrale, appunto) ma l’idea resta sulla carta, una generica buona intenzione: il lancio non riesce, manca la leva della forza d'impatto sul pubblico e lo spettacolo, alla fine, cade. Non mancano le chiamate in scena, ma non siamo più nell'era dei giudizi scarni e delle matematiche formule “applauso finale più richiamo in scena uguale è piaciuto”. Almeno, non ci permettiamo di banalizzare il racconto di uno spettacolo all'interno di questi termini. È permesso invece in questo caso il lusso di non applaudire. E non per presunzione ostentata di conoscenza, ma perché il bisogno di confessarsi davanti allo spettacolo deve porsi negli stessi termini puri con cui un lavoro teatrale si confessa o si vorrebbe confessare allo sguardo del pubblico. Puramente, questo spettacolo nega alcuni fondamenti della pratica scenica, portando lo sguardo dello spettatore a fissare seccato le palle da tennis rotolanti sullo scotch bianco del campo. Probabilmente, questo spettacolo non ha altro esito se non quello di portare alla staticità emotiva lo spettatore e azzerare totalmente il ritmo dell'azione. È certamente sfuggente la portata estetica di tutto questo. Personalmente, invece di applaudire in modo laconico ho preferito osservare, immobile, la felicità che riempie il volto di queste due giovani attrici al termine del loro spettacolo. È quella felicità che riscatta in parte il malcontento, che spinge lo sguardo oltre il giudizio tempestivo e lapidario portandolo al futuro, in attesa di una nuova occasione per incontrare questa compagnia, la sua poetica e il suo lavoro che, per lasciarsi cogliere e capire, ha avuto ben più di due ore. Ma più di due ore non sono bastate.
Visto il 6 Aprile ai Laboratori delle Arti, Bologna.
Elvira Scorza
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