Eppure, se è vero che ogni testo intrattiene relazioni
molteplici con gli altri testi, appartengano essi al passato o al presente, le
parole della Nicosia non possono fare a meno di richiamare, per contrasto o –
forse – per integrazione, non solo quelle di Brecht, cariche di misericordia e
fervore, ma anche quelle dei libri su cui ognuno di noi ha studiato le vicende
e le scoperte di Galilei: il risultato è quello di una sorta di iper-personaggio
che, in quest’ultima lettura di Tib Teatro, assume i tratti di una figura
tragica.
Quella “commozione” che, secondo l’autrice e regista, nasce
di fronte all’“amore per la vita” provato da Galileo, ci sembra il risultato di
un contrasto insanabile – e quindi tragico – tra l’assolutezza delle
convinzioni dello scienziato, la sua cieca e infantile caparbietà da un lato, e
le debolezze, le viltà affettive, le incapacità del sentimento dall’altro.
Questo mondo degli affetti e delle emozioni è popolato solo
ed esclusivamente da figure femminili:
prima la madre, ottusa e gretta ma capace di far crescere
nel figlio una caparbietà imperitura, poi la governante, l’amante Marina e la
figlia Virginia. Ognuna contribuisce a far proliferare un aspetto della
personalità di Galileo, che si rivela sordo e vagamente dispotico con la
governate, bisognoso d’amore verso Marina, sostanzialmente indifferente, a
tratti caritatevole ma in fondo parassita nei riguardi di Virginia. Quasi fosse
incapace di “darsi” realmente all’altro, Galileo sembra suggere dalle sue donne
(e quando ciò non è possibile, come nel caso di Marina, le abbandona) tutta la
forza di cui ha bisogno per condurre la battaglia in difesa delle proprie idee,
almeno fino all’abiura.
La condanna travolge tutti, dalla fida governante (sconvolta
dalla vergogna nel sentir il nome del suo padrone dal pulpito di Santa Maria
Novella) fino a Virginia, costretta a prendere i voti e morta poi in
giovanissima età. Virginia, dapprima figlia abbandonata, si trasformerà in angelo
materno e compassionevole nei confronti di un padre che fino all’ultimo sarà
troppo travolto dall’irruenza delle proprie vicende individuali per riuscire a
dire né a dimostrare alla sua bambina, almeno per una volta, che la Verità non
è solo quella dell’intelligenza ma anche quella del cuore.
In un allestimento scenico rigoroso, essenziale e funzionale nel porre nella giusta luce il carattere e la densità del testo, la sfida più importante, ci sembra, era quella lanciata agli attori.
Nella scatola “bianca” di una scena avvolta da un velario
percorso da fessure verticali (da cui quindi si può entrare e uscire per dar vita
a un’azione che si svolge anche nel retroscena, ma della quale ci arriva solo
una proiezione di ombre), si muovono solo due interpreti, Solimano Pontarollo,
nella parte di Galileo, e Piera Ardessi, nei panni di tutte le figure femminili
menzionate in precedenza.
Se non ci sembrasse un termine eccessivamente abusato,
useremmo per Piera l’aggettivo “brava” nel senso più pieno e completo possibile:
instancabile senza mai eccedere nell’istrionismo, l’attrice
si fa arguta Colombina quando recita nei panni della
governante, ma sa essere anche matrigna bisbetica (personaggio a cui dà vita
solo con la voce e con i gesti proiettati in controluce, grazie a un’assoluta
padronanza del proprio corpo), fino a diventare Virginia/Suor Maria Celeste, ragazzetta
pallida e malaticcia, la fascia per capelli attorno alla testa, che, pur nella
semplicità di vedute di una “monachella”, si prende cura dell’unico affetto che
le sia rimasto, oltre a quello, di certo non cercato ardentemente, che le
proviene dal Signore.
E se dal testo trapela il dubbio circa il fatto che il peso
delle “donne di Galileo” sia più
importante di quanto non si pensi comunemente, nell’interpretazione attorica le
figure femminili della Ardessi si impongono a più riprese sul Galileo
(volutamente più statico, quasi ieratico, e sempre in scena) di Pontarollo. Quella
grandiosa tragicità che il testo ci sembrava emanare sembra spegnersi nell’interpretazione
eccessivamente raziocinante di Solimano, improntata a una sorta di tono medio e
in cui i contrasti insolubili che agitano il personaggio non hanno abbastanza
spazio per manifestarsi: ci appare quindi un Galileo ben consapevole del senso
delle proprie teorie scientifiche, ma, nel pronunciarle, quel “piacere per il
sapere” che tanto aveva orientato le scelte drammaturgiche di Daniela Nicosia,
va confondendosi in una ragnatela di gesti, espressioni del volto e
atteggiamenti che sembrano provenire forse più dall’esperienza scenica
dell’attore, che non dalla pervicace volontà del personaggio.
Il tono medio cui si è fatto in precedenza riferimento, ci
pare che tenda a rimanere anche nei momenti che vedono Galileo alle prese con i
conflitti del proprio mondo emotivo, ed è qui che la partecipazione commossa
che anima le parole del testo perde irrimediabilmente calore.
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