giovedì 1 dicembre 2011

Colpevoli di essere umani: impressioni di teatro

La compagnia Arte e Salute porta Pinter all’ arena del sole.
La fruizione dello spettacolo teatrale è già essa stessa teatro. Lo si vede ancora prima di entrare in sala scrutando le facce, i volti e le espressioni della gente che si hanno intorno, nell’attesa che inizi lo spettacolo. Questa sera il teatro è quello bolognese dell’Arena del sole. È di scena il Pinter  politico, per la regia di Nanni Garella, con il linguaggio della montagna, il bicchiere della staffa e party time. Tre atti unici concepiti da Pinter in tempi diversi (a cavallo fra anni ottanta e novanta) e messi in scena in rapporto alle urgenze sociali a lui contemporanee. Il linguaggio della montagna nasce nel 1988 dal viaggio fatto con Arthur Miller nel Kurdistan turco per conto di Amnesty International, e mostra sevizie incredibili nel carcere di un regime militare e la soppressione della lingua curda (che ora Garella trasforma nel dialetto emiliano). È Pinter stesso a raccontare come ebbe l’idea per Party time nel 1991:

« Una sera mi trovavo a una festa. Mi avvicino a due signore turche che stavano chiacchierando tra di loro:
- Cose ne dite delle torture che avvengono tutti i giorni nel vostro paese?
Mi guardano sbalordire.
- Torture? Quali torture?
- Ma come? Non sapete che ogni giorno vengono torturati decine e decine di uomini nel vostro paese?
- Ma no, vi sbagliate, solo i comunisti vengono torturati...
Invece di strangolare le due signore lì per lì me ne tornai a casa e cominciai a scrivere Party Time»
^ Citato in Nota del curatore di Alessandra Serra, in Harold Pinter, Teatro, Einaudi 2005.

Il regista Nanni Garella cerca ora di reinterpretare la poetica pinteriana nel particolare contesto del progetto Arte e Salute che coniuga il lavoro artistico con il lavoro nel campo della salute mentale, senza proporsi affatto come teatro terapia ma piuttosto come effettivo e duraturo (basti pensare che ebbe inizio nel 1999) percorso professionale che parte sì dal disagio e dall’esclusione sociale ma per confrontarsi  con le scene di un teatro nazionale come è appunto l’ Arena del Sole. A questo proposito si era già espresso Nanni Garella:

 “L’idea originale era di evitare di fare teatro terapia, percorsi interessanti ma che rimangono all’interno di una cura […] I nostri ragazzi, che vanno dai 25 ai 50 anni, hanno raggiunto una grande maturità, prima che artistica, umana. Si sono riappropriati di un pezzo di vita che gli era stato strappato. Hanno potuto continuare il percorso interrotto con l’inizio della loro malattia che solitamente si presenta nell’adolescenza, quando si arrestano percorsi di studio, rapporti d’amore, rapporti familiari. A loro non fa bene fare il teatro, gli serve solo avere un impiego che significhi responsabilità, guadagnare dei soldi, potersi affrancare quindi dalla dipendenza da famiglie o da sussidi pubblici. Riescono così a vedere la loro vita con altri occhi, hanno delle prospettive, ora”.
^ Da un’ intervista di Antonio Raciti Le allucinazioni che fanno teatro 22 giugno 2011


I tre atti unici sono adesso ricomposti dal regista senza soluzione di continuità non tanto nell’intenzione di comporre una trilogia ideale quanto piuttosto un’unica storia, un unico quadro minuziosamente progettato e unificato dalla sofferenza muta di un prigioniero, Jimmy (Mirco Nanni), che sempre ritorna picchiato, calpestato e umiliato. Ospita lo spettacolo la sala Interaction, la sala delle interazioni, dunque, delle forze attrattive tra i corpi, per l’occasione spogliata delle sedie poste in platea per lasciare spazio a uno spettacolo claustrofobico ma che tuttavia prende forma, come a scaturire dalla scena per spiegarla, verso l’esterno e attorno agli spettatori. Spettatori non più passivi rispetto a un teatro distante ma neanche in intima osmosi con la scena e le tematiche di Pinter. In altre parole contatto diretto con la scena non significa affatto per lo spettatore pacifica accettazione e immediata comprensione del messaggio. Non è detto poi neppure che debba esserci un unico messaggio, una sola verità sullo spettacolo, proprio per questo gli spettatori sono chiamati a interrogarsi invitati alla suggestione. Né spettatori passivi né onniscenti, informati su ogni aspetto dello spettacolo, piuttosto siamo di fronte a uno spettacolo che si rinnova in base agli spettatori. Spettatori che appunto interagiscono ponendosi in posizione dialettica nei confronti dello spettacolo e dei  molteplici messaggi che esso lancia. Si prende dunque posto nella piccola gradinata, senza allungare troppo le gambe per non intralciare gli attori, si poggiano i cappotti, liberandosi di guanti, sciarpe e altri indumenti superflui, stando sempre attenti a non disturbare l’anziano signore di fianco che, buon per lui, già sonnecchia. Poi l’occhio si sposta agli attori e alla scena.

La scena è una parete bianca che taglia la sala quasi in un perfetto emiciclo, senza sfruttarne totalmente la profondità. La semplicità di questa scenografia la impone allo sguardo conferendole un potere quasi onirico, come lo spazio di un foglio bianco riempito, prima che scorra la penna, solo dal nostro pensiero, da nitide allucinazioni. A uno sguardo ravvicinato però la scena bianca appare macchiata da sottili righe metalliche: le sbarre di ferro di una prigione. Tra le mura bianche si apre una porta che ricorda quella ipotizzata da molti studiosi per l’antica skenè greca, anche quella infatti dava accesso a uno spazio retroscenico con precisi valori simbolici e rituali. Più che una porta quella che abbiamo di fronte è, dunque, un varco aggettante su un nulla carico di minacce o se si vuole su una scena mutevole che alle volte urla di dolore, balla il tango o è teatro di bombardamenti aerei e retate, alle volte invece, proprio come i detenuti di fronte alla violenza, tace. Infatti il foglio bianco ora giace scritto e la scena si fa teatro di sottili variazioni di luce mutando dal bianco al grigio fin quasi al nero tetro di una prigione. Lo spazio onirico non genera sogni ma incubi e vorremmo fuggirlo. Mi trovo davanti due attori, due uomini seduti su un tavolo di legno grezzo, vestiti di una vaga, imprecisata, uniforme militare. I due sfogliano due registri: uno mi guarda, l’altro mi da le spalle. Gli attori non recitano di fronte al pubblico né per il pubblico. Dall’altra parte della gradinata gli spettatori osservano le donne della montagna entrate in scena dalla parte rasente al muro destro della scena. Nella sala parte della gradinata (in questo caso quella in cui sono seduto io) ha sotto gli occhi i carnefici, parte mette invece a fuoco le vittime ma è più difficile stabilire, a spettacolo finito, chi stia dalla parte dell’uno o dell’altro. Le reazioni tuttavia si possono osservare perché gli stessi spettatori come in uno specchio, si studiano e si fronteggiano, ognuno scruta la reazione dell’altro: c’è chi reagisce con disgusto, chi con disprezzo, chi è semplicemente annoiato e chi si diverte, c’è persino chi sta dalla parte del sergente (Antonio Salerno), cocainomane, ubriacone, grande negli ideali e misero nel corpo. È  un sergente crudele e cinico che offre in segno di provocazione Il bicchiere della staffa  a un detenuto mentre dallo spazio retroscenico ci giungono le grida della moglie violentata dai suoi sottoposti. Sproloquia su Dio e sulla Patria, sbraita addosso al detenuto impotente ma questi col suo solo silenzio scoperchia la vacuità degli sforzi del potere prevaricatore e totalitario.  Funzionari e burocrati del potere, affogati dalla forma, accecati dall’ideologia hanno assoggettato a essa il cuore e lo stomaco, hanno piegato il corpo ribelle con droghe, alcool, eccitanti e tranquillanti per dare parvenza di normalità al loro stato subalterno e a ciò che normale non è, a una giustizia ingiusta, all’umanità vittima di un sistema. È questa la sottile grandezza di Pinter: vedere l’umano anche nel carnefice per segnalare, senza parole, la sconfitta del potere di fronte all’autenticità e alla miseria che è segreta grandezza dell’umano. A un potere fatto di retorica e propaganda e a un linguaggio verbale che allontana e non dice velando la psicologia dei personaggi, Pinter contrappone il rumore del silenzio. Un silenzio che sarebbe riduttivo definire desolante. Tuttavia  non è il silenzio sconfitto di fronte a un inutile dolore ma è l’unica autentica risposta al rumore, l’unico possibile linguaggio, la realtà svelata.

Così Pinter ci mostra il suo amore per l’uomo con dialoghi autenticamente costruiti, ottimamente recitati dagli attori ormai professionisti di Arte e Salute, che dietro l’apparente semplicità svelano una precisa architettura concentrica, l’avvolgersi a gradi sempre più cupo di una spirale di violenza, sopraffazione e ipocrisia verso l’epilogo degli atti e poi della trilogia: Party time.

I tavoli di legno grezzo prima simmetricamente disposti in fila ora si disperdono forse a indicare un cambiamento di luogo (una sala fastosa) e certo a dar vita al clima vacuo e confuso della festa.  Una festa, un party appunto fatto di risate grasse e sorrisi di circostanza e forse non casualmente i bicchieri che i personaggi si passano tra le mani con nonchalance aristocratica sono vuoti come stessero a succhiare il nulla e il vuoto delle proprie anime. Lo stesso vuoto che sentono con più intensità e consapevolezza le vittime. Infine entra Jimmy (Mirco Nanni) il detenuto che regge le fila degli atti unici unificati. Porta sul volto i segni di un pestaggio, invano la sorella lo aveva cercato, rimproverata come se le sue preoccupazioni stessero importunando gli ospiti della festa che ora si blocca come in un fermo immagine per aprirsi al monologo conclusivo di Jimmy ed è realmente difficile dire se appartenga più alla vittima o più al carnefice, agli spettatori o agli attori :

A volte sbatte una porta, sento delle voci, poi più niente.
Tutto si ferma. Si ferma tutto.
Tutto si chiude. Si chiude completamente.
Si chiude. Si chiude tutto. Si chiude completamente.
Non vedo più niente, mai più niente. Siedo e succhio il buio.
È quello che ho. Ho il buio in bocca e lo succhio. È tutto quello che ho.
È mio. Mi appartiene. Lo succhio.
Ma la festa è finita, si riaccendono le luci e il vecchietto accanto a me si è svegliato, gli attori stanchi escono a fumare e, vittime o carnefici che siano, gli spettatori comunque torneranno a casa, ciascuno con le proprie idee, giusto in tempo per il Tg della sera.

Edoardo Pitrè

Nessun commento:

Posta un commento