La fruizione dello spettacolo teatrale è già essa stessa teatro. Lo si vede ancora prima di entrare in sala scrutando le facce, i volti e le espressioni della gente che si hanno intorno, nell’attesa che inizi lo spettacolo. Questa sera il teatro è quello bolognese dell’Arena del sole. È di scena il Pinter politico, per la regia di Nanni Garella, con il linguaggio della montagna, il bicchiere della staffa e party time. Tre atti unici concepiti da Pinter in tempi diversi (a cavallo fra anni ottanta e novanta) e messi in scena in rapporto alle urgenze sociali a lui contemporanee. Il linguaggio della montagna nasce nel 1988 dal viaggio fatto con Arthur Miller nel Kurdistan turco per conto di Amnesty International, e mostra sevizie incredibili nel carcere di un regime militare e la soppressione della lingua curda (che ora Garella trasforma nel dialetto emiliano). È Pinter stesso a raccontare come ebbe l’idea per Party time nel 1991:
« Una sera mi trovavo a una
festa. Mi avvicino a due signore turche che stavano chiacchierando tra di loro:
- Cose ne dite delle torture che avvengono tutti i giorni nel vostro paese?
Mi guardano sbalordire.
- Torture? Quali torture?
- Ma come? Non sapete che ogni giorno vengono torturati decine e decine di uomini nel vostro paese?
- Ma no, vi sbagliate, solo i comunisti vengono torturati...
Invece di strangolare le due signore lì per lì me ne tornai a casa e
cominciai a scrivere Party Time! »- Cose ne dite delle torture che avvengono tutti i giorni nel vostro paese?
Mi guardano sbalordire.
- Torture? Quali torture?
- Ma come? Non sapete che ogni giorno vengono torturati decine e decine di uomini nel vostro paese?
- Ma no, vi sbagliate, solo i comunisti vengono torturati...
Il regista Nanni Garella cerca ora di reinterpretare la poetica pinteriana nel particolare contesto del progetto Arte e Salute che coniuga il lavoro artistico con il lavoro nel campo della salute mentale, senza proporsi affatto come teatro terapia ma piuttosto come effettivo e duraturo (basti pensare che ebbe inizio nel 1999) percorso professionale che parte sì dal disagio e dall’esclusione sociale ma per confrontarsi con le scene di un teatro nazionale come è appunto l’ Arena del Sole. A questo proposito si era già espresso Nanni Garella:
“L’idea originale era di evitare di fare teatro terapia,
percorsi interessanti ma che rimangono all’interno di una cura […] I nostri
ragazzi, che vanno dai 25 ai 50 anni, hanno raggiunto una grande maturità,
prima che artistica, umana. Si sono riappropriati di un pezzo di vita che gli
era stato strappato. Hanno potuto continuare il percorso interrotto con
l’inizio della loro malattia che solitamente si presenta nell’adolescenza,
quando si arrestano percorsi di studio, rapporti d’amore, rapporti familiari. A
loro non fa bene fare il teatro, gli serve solo avere un impiego che significhi
responsabilità, guadagnare dei soldi, potersi affrancare quindi dalla
dipendenza da famiglie o da sussidi pubblici. Riescono così a vedere la loro
vita con altri occhi, hanno delle prospettive, ora”.
^ Da un’ intervista di Antonio Raciti Le
allucinazioni che fanno teatro 22 giugno 2011
La scena
è una parete bianca che taglia la sala quasi in un perfetto emiciclo, senza
sfruttarne totalmente la profondità. La semplicità di questa scenografia la
impone allo sguardo conferendole un potere quasi onirico, come lo spazio di un
foglio bianco riempito, prima che scorra la penna, solo dal nostro pensiero, da
nitide allucinazioni. A uno sguardo ravvicinato però la scena bianca appare
macchiata da sottili righe metalliche: le sbarre di ferro di una prigione. Tra
le mura bianche si apre una porta che ricorda quella ipotizzata da molti
studiosi per l’antica skenè greca,
anche quella infatti dava accesso a uno spazio retroscenico con precisi valori
simbolici e rituali. Più che una porta quella che abbiamo di fronte è, dunque,
un varco aggettante su un nulla carico di minacce o se si vuole su una scena
mutevole che alle volte urla di dolore, balla il tango o è teatro di
bombardamenti aerei e retate, alle volte invece, proprio come i detenuti di
fronte alla violenza, tace. Infatti il foglio bianco ora giace scritto e la
scena si fa teatro di sottili variazioni di luce mutando dal bianco al grigio
fin quasi al nero tetro di una prigione. Lo spazio onirico non genera sogni ma
incubi e vorremmo fuggirlo. Mi trovo davanti due attori, due uomini seduti su
un tavolo di legno grezzo, vestiti di una vaga, imprecisata, uniforme militare.
I due sfogliano due registri: uno mi guarda, l’altro mi da le spalle. Gli
attori non recitano di fronte al pubblico né per il pubblico. Dall’altra parte
della gradinata gli spettatori osservano le donne della montagna entrate in
scena dalla parte rasente al muro destro della scena. Nella sala parte della
gradinata (in questo caso quella in cui sono seduto io) ha sotto gli occhi i
carnefici, parte mette invece a fuoco le vittime ma è più difficile stabilire,
a spettacolo finito, chi stia dalla parte dell’uno o dell’altro. Le reazioni
tuttavia si possono osservare perché gli stessi spettatori come in uno
specchio, si studiano e si fronteggiano, ognuno scruta la reazione dell’altro:
c’è chi reagisce con disgusto, chi con disprezzo, chi è semplicemente annoiato
e chi si diverte, c’è persino chi sta dalla parte del sergente (Antonio Salerno),
cocainomane, ubriacone, grande negli ideali e misero nel corpo. È un sergente crudele e cinico che offre in
segno di provocazione Il bicchiere della
staffa a un detenuto mentre dallo
spazio retroscenico ci giungono le grida della moglie violentata dai suoi
sottoposti. Sproloquia su Dio e sulla Patria, sbraita addosso al detenuto
impotente ma questi col suo solo silenzio scoperchia la vacuità degli sforzi
del potere prevaricatore e totalitario.
Funzionari e burocrati del potere, affogati dalla forma, accecati
dall’ideologia hanno assoggettato a essa il cuore e lo stomaco, hanno piegato
il corpo ribelle con droghe, alcool, eccitanti e tranquillanti per dare parvenza di
normalità al loro stato subalterno e a ciò che normale non è, a una giustizia
ingiusta, all’umanità vittima di un sistema. È questa la sottile grandezza di
Pinter: vedere l’umano anche nel carnefice per segnalare, senza parole, la sconfitta
del potere di fronte all’autenticità e alla miseria che è segreta grandezza
dell’umano. A un potere fatto di retorica e propaganda e a un linguaggio verbale
che allontana e non dice velando la psicologia dei personaggi, Pinter
contrappone il rumore del silenzio. Un silenzio che sarebbe riduttivo definire
desolante. Tuttavia non è il silenzio
sconfitto di fronte a un inutile dolore ma è l’unica autentica risposta al
rumore, l’unico possibile linguaggio, la realtà svelata.
Così
Pinter ci mostra il suo amore per l’uomo con dialoghi autenticamente costruiti,
ottimamente recitati dagli attori ormai professionisti di Arte e Salute, che
dietro l’apparente semplicità svelano una precisa architettura concentrica,
l’avvolgersi a gradi sempre più cupo di una spirale di violenza, sopraffazione
e ipocrisia verso l’epilogo degli atti e poi della trilogia: Party time.
I tavoli
di legno grezzo prima simmetricamente disposti in fila ora si disperdono forse
a indicare un cambiamento di luogo (una sala fastosa) e certo a dar vita al
clima vacuo e confuso della festa. Una
festa, un party appunto fatto di risate grasse e sorrisi di circostanza e forse
non casualmente i bicchieri che i personaggi si passano tra le mani con nonchalance aristocratica sono vuoti
come stessero a succhiare il nulla e il vuoto delle proprie anime. Lo stesso
vuoto che sentono con più intensità e consapevolezza le vittime. Infine entra
Jimmy (Mirco Nanni) il detenuto che regge le fila degli atti unici unificati.
Porta sul volto i segni di un pestaggio, invano la sorella lo aveva cercato, rimproverata
come se le sue preoccupazioni stessero importunando gli ospiti della festa che
ora si blocca come in un fermo immagine per aprirsi al monologo conclusivo di Jimmy
ed è realmente difficile dire se appartenga più alla vittima o più al carnefice,
agli spettatori o agli attori :
A volte sbatte una porta, sento
delle voci, poi più niente.
Tutto si ferma. Si ferma tutto.
Tutto si chiude. Si chiude
completamente.
Si chiude. Si chiude tutto. Si
chiude completamente.
Non vedo più niente, mai più niente.
Siedo e succhio il buio.
È quello che ho. Ho il buio in bocca
e lo succhio. È tutto quello che ho.
È mio. Mi appartiene. Lo succhio.
Ma la
festa è finita, si riaccendono le luci e il vecchietto accanto a me si è
svegliato, gli attori stanchi escono a fumare e, vittime o carnefici che siano,
gli spettatori comunque torneranno a casa, ciascuno con le proprie idee, giusto
in tempo per il Tg della sera.
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