lunedì 12 dicembre 2011

La dolce preghiera del Teatro delle Albe per le vittime della tratta


Su un’isoletta vulcanica in mezzo al mare, grande come l’asteroide B612 del Piccolo Principe, in una parte di mare che non è di nessuno, tra l’Africa e l’Italia, c’è un signorotto: divisa miliare, petto gonfio di medaglie, occhiali da Top Gun, mani sui fianchi. Voce rauca e cattiva, portamento altezzoso, ossessionato dai numeri. Il suo lavoro è contare: tiene in ordine le migliaia di anime che sprofondano nel mare attorno a lui. Avvista i barconi pieni di esseri umani che hanno perso l’identità e che sono diventati numeri. È ossessionato dai numeri che non hanno nome. È alle dipendenze del ministro dell’inferno. Questo essere metà uomo e metà animale è il portiere dei disperati e pratica la politica degli “accoglimenti”. Vuole farla finita con i “respingimenti”, ma l’unica cosa che gli vien bene da accogliere sono i corpi mangiucchiati dai pesci, spiriti senza volto e senza nome, per i quali si sforza di raccontarne la storia, di restituirgli un minimo di dignità per una, seppur non all’altezza, quanto meno onesta sepoltura. È Rumore di acque il nuovo spettacolo del Teatro delle Albe, visto al Teatro Testoni di Casalecchio, con un bravissimo Alessandro Renda nei panni del diavolaccio generale-presidente dell’isoletta.

Antefatto
Marco Martinelli e Ermanna Montanari con qualche componente del Teatro delle Albe si trovano a Trapani per la non-scuola. Portano in giro il loro Detto Molière, finché non arrivano a Mazara del Vallo. A questo punto non ci stanno più e, dato che Martinelli non fa nulla se non ha un senso, decidono che non è il momento per Molière. Vengono letteralmente catturati dai colori e dai suoni del mare della città, luogo-confine tra Africa e Italia. I molti tunisini presenti che convivono con i siciliani ricordano ogni volta quei barconi che, partiti stracolmi di persone, arrivano carichi di corpi stremati nella migliore delle ipotesi, anche se più spesso spariscono in fondo al mare. Così le Albe cominciano Rumore di acque: laboratori con adolescenti, per ovvie ragioni, misti tra tunisini e siciliani; Ermanna si lascia incantare dalle suggestioni e Marco prende appunti. Alessandro filma tutto. Raccolgono materiale per un anno circa, finché: “Lo sproloquio è venuto fuori di getto, un flusso inarestabile di numeri e immagini” così Martinelli nelle note di regia. 


Lo spettacolo
È venuto fuori un monologo “dallo humor nero” recita il programma di sala. È un mix di eventi, di notizie che si potrebbero trovare sui telegiornali, sui quotidiani, ma a cui ci siamo probabilmente assuefatti. Il traffico degli scafisti, la gente accatastata sui gommoni abbandanati al loro destino, le motovedette della capitaneria e i pescatori che sembrano ripetere ogni volta la tragedia di Antigone: assecondare la legge dello Stato o quella del cuore? Praticare la politica dei respingimenti o quella degli “accoglimenti”? Martinelli scrive letteralmente le parole di un requiem per i troppi annegati nel Canale di Sicilia, che viene musicato da due musicisti d’eccezione: i Fratelli Mancuso. Con il loro canto nasale, attraverso melodie arabeggianti, accompagnano con campane suonate a morto, i troppi in fondo al mare. Forse avendo in mente il portiere macbethiano, il generale-presidente dell’isoletta collocata nel girone dell’inferno ha tutte le sembianze del più ben noto Gheddafi al quale l’attore si ispira ascoltando i discorsi, studiando le movenze, esaminando i vestiti. E tutto questo in tempi in cui non si poteva immaginare la triste fine del dittatore, dato che veniva da tutti i capi di Stato accolto e riverito di ogni onore.

L’omaggio che il Teatro delle Albe rende alle troppe vittime della tratta è la voglia di dare un nome e una storia a quei numeri, a quelle vittime lasciate senza giustizia. Ne vengono abbozzati i volti, le voglie, le speranze, ma ogni volta è uno sprofondamento. E ogni volta una litania di accompagnamento funebre. Solo una donna nel racconto riesce a sopravvivere, Jasmine, ma a che prezzo?
La voce-maschera del diavolaccio è un incalzare continuo, inchioda lo spettatore e lo tiene in pugno. Ci racconta anche di un bambino, Jean Baptiste, con una voce diversa, non sembra addolorata, direi piuttosto stanca. Neppure lui riesce a toccare terra, ma questa volta non c’è un requiem ad attenderlo: i Fratelli Mancuso intonano per il bimbo una dolcissima ninna nanna.
In un’ora di monologo raccontato da personaggi grotteschi, stravaganti, sicuramente inventati, passano davanti agli occhi immagini molto vere. Come in un doppio binario si ha la sensazione che tutto ciò che si ode è tratto dalla realtà - le musiche, i nomi, i numeri – mentre quello che si vede da un fumetto di fantascienza. Forse è anche per questo, per questo strano modo di associare immagini a suoni, che il pubblico alla fine dello spettacolo rimane pietrificato, fiato sospeso, nessuno applaude. Riverenza per le vittime, monumento di dolore. Non si vuole rischiare di fare troppo rumore.

Josella Calantropo 

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