Dopo La
strada di Pacha, dello scorso anno, stesso attore, stesso regista, è ancora
lo spettatore al centro del lavoro. Il pubblico viene fatto entrare a gruppi e
viene accolto dal sorriso di Gigi Gherzi che comincia a raccontare. Ci parla di
un registratore, di lui che si muove tra le vie di Milano in cerca di persone
fragili che abbiano delle storie da raccontare, con un metodo che sfiora il mestiere
del reporter giornalistico.
La
scena: le opere d’arte di Pietro Floridia, Laura Pavani e Gabriele Silva
Ci racconta di come le parole chiavi,
trentasei parole, siano state trasformate in opere d’arte, di come quindi la
scultura si mescoli al teatro. E così noi, ospiti di questa città, ci muoviamo
tra disoccupati, appesi, panchine, alberi, solitudini, carriere. Tutte parole
che diventano, grazie all’allestimento scenico, personaggi che evocano persone
in carne e ossa. La scena è come un grande archivio dove sono custoditi pezzi
di città. Dietro a ogni etichetta ci sono cassetti, dentro ogni cassetto ci
sono simboli, ogni simbolo parla di persone. E tocca allo spettatore scoprire
un po’ per volta la città: aprire i cassetti, scrivere suggestioni e impressioni,
giocare con essa senza paura di romperla. Allestita interamente con materiali
di recupero, uova, chiodi, pezzi di bambole, cocci di piatti infranti, corde,
legnetti, chitarre, Pietro Floridia e la sua squadra hanno fatto una vera e
propria mostra metropolitana.
E
poi la parola a Gigi Gherzi, all’artista che cammina
Il pubblico prende posto si siede su
panchine arruginite. Si cerca di scoprire insieme una città che spesso viene
vista solo dai video promozionali, che fanno apparire una Milano efficiente, di
un nuovo quartiere in costruzione moderno, grandioso, pieno di verde, con il
cielo azzurro (azzurro? A Milano?), ma senza persone. Ed ecco che fa la sua
apparizione Caravaggio. Gherzi evoca La
conversione di san Matteo e difronte al quel quadro non ci si perde a
pensare a quanto sono belli i tavoli della locanda, o a quanto sono comode le
sedie. Il protagonista è l’incontro di sguardi tra Gesù e Matteo. È lo sgomento
di Matteo che squarcia il dipinto. È il dito puntato del Cristo come a dire
“voglio te” che conquista. Per pensare alla velocità, alla grandezza, travolti
dai social network, forse ci siamo persi gli incontri e i rapporti. Ci muoviamo
attraverso questa città di persone fragili: precari che salgono sui tetti,
insegnanti incatenati davanti al provveditorato. Finché Gigi Gherzi e noi con
lui troviamo la forza di attraversare il cancello dell’ex ospedale psichiatrico
Paolo Pini. E le prime immagini raccontate sono quelle delle panchine vuote, dei
corridoi, dei carrelli per i farmaci, delle foto di ex pazienti, delle calze
bianche delle infermiere, della macchina dell’elettroshock. Lo spettatore a
questo punto dell spettacolo viene chiamato di nuovo a portare il suo
contributo, altre suggestioni da condividere, è chiamato a mettere al centro i
pensieri di quella sera o i ricordi di una vita. È chiamato al racconto e a
donare un pezzo della sua fragilità.
A questo punto la mappa della città è
completa. E Gigi Gherzi interrompe il suo racconto. Potresti continuare ad
ascoltare per ore, e invece è tempo di andare e di rientrare nella città che
dopo quest’incontro risulta un po’meno fragile.
Josella Calantropo
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