sabato 10 dicembre 2011

“Fammi la cortesia, caro, non piantarmi in asso di nuovo”. Abbondanza/Bertoni in “Un giorno felice”




Strano pensare che Giorni felici di Samuel Beckett possa fungere da motivo di ispirazione per un lavoro coreografico, se non altro per l’apparente assenza di movimento che caratterizza l’agire scenico dei due protagonisti del testo beckettiano: creature estenuate da una vita che sembra giungere lentamente al termine portando con sé il peso di una miseranda ripetitività quotidiana, Willie e Winnie (soprattutto quest’ultima, “donna sulla cinquantina”, che vive interrata in un monticello ricoperto di erba inaridita) trascorrono le loro giornate cercando di fronteggiare il vano scivolare via del tempo, il terrore della fine (unito a quello del ricordo e del passato), con un turbine di parole e di piccoli gesti ossessivi che tentano disperatamente di congelare l’istante.
E di guardarlo, quell’istante, per provare a dirsi qualcosa, a raggiungersi con la parola, perché, dice Winnie al suo malandato consorte, “Certi giorni, forse, non senti addirittura niente. Ma ci sono anche giorni in cui rispondi. Per cui, in qualunque momento, anche quando non rispondi e forse non senti niente, posso dire”.

Con Un giorno felice Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, il duo forse più autorevole della danza d’autore italiana, sono andati scavare proprio nelle pieghe del claustrofobico rapporto coniugale di Willie e Winnie, trasformando il vaniloquio ossessivo e pregno di angoscia dei coniugi beckettiani in una costruzione coreografica in cui il movimento diventa materia da mettere in forma per raccontare non solo la ripetitività di un quotidiano fatto di pavimenti da pulire, partite di calcio alla tv e grotteschi accoppiamenti (a metà tra il bestiale e il marionettistico), ma anche per trasformare il corpo in metafora incarnata della paura della solitudine, del bisogno del sostegno, del desiderio – inquietante ma fascinoso – di restare anche da soli, ogni tanto.
Nella cornice spaziale delimitata da un rettangolo di erba sintetica e in quella temporale – volutamente dilatata – scandita dalle note astratte del pianoforte di Simona Bungaro (che, alternativamente, aziona anche un metronomo, correlativo oggettivo del fluire monotono del tempo), i due interpreti, con indosso maschere e parrucche che li fanno apparire qualcosa di simile alla bestia o alla caricatura, trascorrono i loro giorni allucinati: lei, sempre indaffarata nelle mansioni domestiche, ossessionata dal bisogno di avere tutti gli oggetti d’uso quotidiano sotto controllo, ma anche riflessiva, al punto che i suoi pensieri e le sue parole compaiono – proiettati – sullo sfondo;  lui, invece, sfinito e apatico, spesso taciturno e dormiente, quasi mai visitato dai ricordi di un passato che ogni secondo che arriva sembra distruggere sempre più.
Ne emerge un corpo danzante goffo, comico, appesantito e marionettistico, soprattutto nei momenti a due, durante i quali lo sketch (si pensi a tutti i dispetti che marito e moglie si fanno di continuo) e la parodia irresistibile del pas de deux si fonde con momenti teneramente lirici, in cui i corpi sostengono l’uno il peso dell’altro, in una costruzione solida e fluida al contempo di leve, appoggi, e passaggi di peso che ci dicono l’inseparabilità di queste due misere creature, condannate a stare insieme per non impazzire.


Eppure, per entrambi, torna a più riprese il desiderio della fuga: basta che uno dei due sia nella propria stanza, ed ecco che l’altro si lancia in una serie malconcia e derelitta di volteggi, salti e pose da balletto classico. Ma si tratta di una condizione destinata a non durare. Il limbo è lo spazio di questa coppia incapace di sincera e autentica condivisione (nemmeno se si tratta di mangiare insieme una fetta di torta), fondamentalmente arida, desiderosa di interrompere la monotonia del vivere quotidiano (magari anche a costo di spararsi a vicenda, non si sa se per gioco o meno), ma, in verità, avviluppata in una rete di miopie e paralisi che costringono Winnie a rivolgersi al suo uomo dicendo (quasi fosse una condanna?): “amore mio, sostegno dei miei giorni”.
Giulia Taddeo

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