LE RECENSIONI
Il potere dei Classici nell' "Avaro" delle Albe
di Michela Mari
L'avaro di Ermanna Montanari è tutto nella voce, anzi nelle diverse voci che costruiscono una personalità chiusa nella tirchieria asfissiante. La bocca è la cassa di risonanza dell'incapacità di condividere, anche solo parole.
La voce soffia, graffia, strappa. È il ruggito di un leone afono.
Per imporre il proprio volere è indispensabile farsi sentire, così l'avaro per essere udito deve essere amplificato. Il microfono diventa simbolo e strumento del potere, prolungamento irrinunciabile del corpo di Arpagone. Non se ne separa mai, lo trascina con vezzi da cantante rock, lo protegge dalle mire di quanti lo desiderano.
Non ha bisogno di travestimenti la splendida Montanari perché la sua interpretazione è oltre il personaggio. Vestita di nero, piccola e chiusa in sé stessa, porta sul palco l'umanità intera, rattrappita in un narcisistico, onanistico rapporto con il proprio potere.
Il teatro delle Albe si confronta con la commedia più nera di Molière, e ci stupisce con un testo, nella traduzione integrale di Cesare Garboli, capace di raccontare l'oggi attraverso le vicende, sgangherate e lontane, di giovani e servi che ruotano attorno a un vecchio e al suo denaro.
La scena è un set cinematografico, emblema della società dello spettacolo in cui viviamo, incapaci di liberarci dell'occhio che ci segue costantemente, ma anche di resistere alla tentazione di sbirciare nelle vite altrui.
Il finale, televisivo e per questo imbarazzante, costringe a riconoscersi in un modello che inevitabilmente ci appartiene. La luce invade la sala e gli intrighi trovano soluzione grazie a Marco Martinelli, moderno deus ex machina, che in piedi, dalla platea, consegna al pubblico il miracolo banale del lieto fine.
foto Claire Pasquier
“L’Avaro”
di Molière: manager della civiltà dei consumi
di Rossella Menna
Una casetta in miniatura, un ritaglio di parete con finestra senza vetri che suggerisce un interno, un monitor che spia l’entrata del pubblico in sala, lettere sparse sul pavimento, un tavolo d’epoca, una lampada, qualche libro, luci da set. Operai in tuta blu che portano via tutto.
Comincia
con uno svuotamento L’Avaro portato
sul palco del Testoni di Casalecchio dal Teatro
delle Albe. Svuotamento fisico della scena che lancia suggerimenti al
pubblico. Se si vuole vedere Molière, bisogna fare a pezzi l’ “idea” di
Molière. Niente preconcetti, tabula rasa.
La
coppia Martinelli-Montanari aggiunge un nuovo tassello al suo mosaico di
classici rivisitati. Anche se, in questo caso, di rivisitazione non si può parlare
perché il testo, nella traduzione di Cesare Garboli, è preso per com’è, per
intero. Nessuna riscrittura.
Il
lavoro registico di reinvenzione, allora, passa attraverso segni di natura
squisitamente scenica.
Alla
nota trama che vede un padre avaro tormentare i figli e i servitori con la sua
ossessiva fissazione per il denaro e per il risparmio, Marco Martinelli applica una cornice che cala fatti e personaggi
direttamente nell’oggi. L’avarizia diviene così solo metonimia di un intero
sistema di marciume, di un malessere diffuso che non risparmia nessuno. Il
simbolo di una società ipocrita e votata a falsi idoli che spettacolarizza ogni
cosa. E voilà dunque risate e applausi registrati, cameriere frenetiche vestite
come vallette che si affannano nel tentativo di gestire i comportamenti degli
altri personaggi, operatori solerti che rincorrono gli attori con i fari per
illuminargli “a vista” il volto durante i dialoghi. Tutto è spettacolo e tutti
spiano tutti come ricorda costantemente una sorta di casetta in miniatura stile
modellino di Bruno Vespa, che svetta illuminandosi di tanto in tanto, su un
carrellino posto sul fondo della scena.
Dei caratteri di Molière rimane ben poco o
forse tutto. Dipende dai punti di vista.
Tutti i
personaggi in questa commedia rifiutano lo status di caratteri definiti e
univoci per farsi portavoci di un’ambiguità diffusa per la quale ognuno è
quello che appare e insieme qualcos’altro. Cleante è il figlio oppresso
dall’avarizia del padre, ma è a sua volta un giovane arido che ucciderebbe per
un vestito nuovo. Nessuno si salva in questo circo dell’ipocrisia. Anzi, i
personaggi “minori” con la loro ambiguità rappresentano l’essere arpagonizzati
meglio di Arpagone stesso.
La
recitazione aderisce perfettamente allo scopo. Passando abilmente attraverso
varie modalità interpretative, tutti gli attori costruiscono personaggi sur-reali. Eccessivi. Dei tipi forzati
che superano la realtà e si collocano sulla soglia dell’irreale senza
oltrepassarla. In altri termini, il pubblico è messo in condizione di
riconoscere il “tipo umano” rappresentato senza però cedere all’illusione di
crederlo reale. La recitazione risulta
dunque stilizzata, svuotata. Gli innamorati non si amano. I sofferenti non
soffrono. Tutto il senso narrativo passa
attraverso le parole. Questo comune denominatore attorico, ovviamente, è
declinato da ciascuno secondo modalità personalissime. Si veda l’Elisa di Laura Redaelli che si muove come una
bambola, soffre di comici attacchi di riso e per rifiutare il matrimonio combinato
proposto dal padre, sale, senza ragione alcuna, su una sedia. O il Cleante di Roberto Magnani che si muove
convulsamente agitando l’aria come una trottola impazzita. Esito estremo di
questo vuoto profluvio di parole, la scena delle marionette, in cui ciascuno si
muove secondo logiche tutte sue su una rimbombante musica disco.
Discorso
a parte per Ermanna Montanari. Il
suo Arpagone dall’anima nera è assolutamente coerente, univoco. Il dubbio che
la sua avarizia possa essere risolta in sentimenti di natura meno spregevole
non sfiora lo spettatore neanche un attimo. Ma questo c’era già in Molière.
L’innovazione della Montanari si rivela nei modi con cui ha inventato la figura
estetica dell’Avaro, conferendogli voce, corpo e movenze assolutamente inedite.
L’attrice,
in tailleur nero e trucco dark, ha costruito il personaggio operando su due
elementi classici come gesto e voce riconducendoli alle estreme conseguenze.
Arpagone
non si muove organicamente nello spazio, lo fende, lo squarcia con azioni
mirate. La sua partitura fisica è data da una sequenza di pose che, aiutato
dalle luci, mostra al pubblico in quanto tali. All’interno di un sistema di
economia gestuale, la Montanari lavora su tracce di movimento sintetiche che seguono
lo stesso principio delle stampe giapponesi in cui il segno, lungi dal
rappresentare verosimilmente un’immagine, la sublima, la sintetizza, ne mostra
l’essenza originaria. Ecco dunque che nei numerosi fermo-immagine inquadrati da
luci bianche, vediamo la Montanari prodursi in pose astratte che riconducono
sempre all’idea di malvagità, di sospetto, di furtivo, di arraffo. Il binomio
perfetto è Arpagone-rapace. L’attrice,
che guarda caso indossa scarpe caprine ispirate alle Tabi, tradizionali
calzature giapponesi che ricordano da vicino arti animali, graffia
continuamente l’aria con i suoi artigli d’aquila.
All’altro
estremo della polarità la voce, strumento privilegiato dalla Montanari per
questo Arpagone. L’attrice sfoggia un ventaglio enorme di colori vocali,
modulando il suono dal suadente all’aspro passando per i toni medi dell’arido e
del dolce. Sempre con assoluta asciuttezza. Nessuna parola è urlata. La rabbia
e la gioia passano dallo stesso canale mostrandosi in tutta la loro forza
interiore.
D’altro
canto non servirebbe a nulla urlare. Nella società giungla in cui vince chi
riesce a farsi sentire di più non basta avere una voce da cantante lirico.
Servono mezzi di amplificazione alternativi. E Arpagone ce l’ha. È l’unico, in
scena, a possedere un microfono. Un tesoro, forse il vero tesoro dell’Avaro che
tutti cercano di rubare senza successo. Solo Frosina, con le sue doti da
ruffiana, riesce per un momento a prenderne possesso. Ma è un successo
temporaneo, brevissimo. Chi ha il microfono domina su tutto. E Arpagone non ha
rivali. La sua voce sovrasta tutte le altre, è protagonista assoluta.
La
traccia registica si muove su un doppio binario attraverso un uso specifico
delle luci. Se la luce piena incornicia i momenti narrativamente salienti, i
bui suggeriscono i punti nodali della regia. Vedi l’inedita scena muta in cui
una delle serve fa pendere una spada sulla testa dell’altra, la disperata
dichiarazione d’amore di Arpagone per la cassetta perduta, la pantomima horror
in cui una serie di fermo immagine dati da scatti di luce bloccano un insieme
di azioni inquietanti. Tutte scene immerse nel buio in cui solo piccoli punti
di luce lasciano intravedere ciò che accade sulla scena.
Luce
piena invece per il finale in cui, arrivando dalla platea anch’essa illuminata
Martinelli, nei panni di Anselmo, tira le fila della vicenda regalando al
pubblico il miracolo che si aspetta dal teatro. L’agnizione finale è d’obbligo
e il lieto fine è garantito. Ma non soddisfa. E lascia in bocca il gusto amaro
di un rimprovero.
Le
Albe sono vicine, l’Avaro di Molière è rinato
di Angela Sciavilla
Lunga vita a un Avaro di Molière privo, finalmente,
delle fastose parrucche della Comédie-Française.
Un Arpagone
nero e un po’ rock star, dall’avarizia urlata al mondo, amplificata da uno scettro-microfono
nelle mani di una sagace Ermanna Montanari che non lascia spazi vuoti,
ipnotizza l’orecchio con dissonanti vocalità a volte gutturali, altre più
acute-
Molière può
liberarsi dei fantasmi del passato, tormentato da sfarzose scenografie, e
costumi, imbastiti su claustrofobiche misure. Merito del Teatro delle Albe
di Ravenna.
Al Teatro Alfredo Testoni di Casalecchio, il pubblico è preso in contropiede da ipotetici tecnici che sgombrano la scena affastellata da oggetti durante il suo arrivo: una catarsi registica che purifica le menti dello spettatore, per poter accogliere l’Avaro di Molière.
Non rimane nulla in scena, solo un panorama grigio e un’ovattata atmosfera, fuori dal tempo e dallo spazio.
Padre di famiglia ingordo di monete, vorace di piani loschi e proficui, Arpagone innalza una lode al denaro, a discapito della felicità dei figli, destinati a sposare persone prestigiose non amate. Dodici mila scudi d’oro stipati in una cassetta in giardino e servi, cuochi, governati come marionette, intrappolati dai fili della bramosia, stretti nella rete del risparmio convulso.
L’avarizia di cui Arpagone è l’officiante ha contagiato tutti, e chi non ha il dio denaro come fine ultimo, ha comunque un interesse da difendere.
Ognuno reagisce con risate spasmodiche, azioni ripetute, attenti a non sforzare gli stretti limiti di una scena cinematografica; ogni passo falso sarà smorzato dal cast di produzione che punta le luci, monitora e ne riprende i movimenti.
Una commedia tragica di cabaret nero in cui la regia di Martinelli prevede cambi di scena gestiti da luci espressive, avvolta in stacchi improvvisi di luce e in un buio nel quale i personaggi nascondono i propri segreti. È in questa culla che il padre-padrone di casa invoca il pubblico a resuscitarlo: “povero mio denaro, amico mio caro… se tu non ci sei, è finita per me”.
E il denaro viene rubato, Arpagnone dubita di tutti, è disposto a tutto pur di riaverlo.
Ma nella cassetta-casetta degli orrori, controllata a vista da telecamenre, l’happy ending non può mancare, il cine-spettatore lo pretende!
Eccolo servito dal regista in persona che dalla platea interagisce con gli attori, risolve i misfatti in una cornice in cui non si può non applaudire felice e contenti.
Al Teatro Alfredo Testoni di Casalecchio, il pubblico è preso in contropiede da ipotetici tecnici che sgombrano la scena affastellata da oggetti durante il suo arrivo: una catarsi registica che purifica le menti dello spettatore, per poter accogliere l’Avaro di Molière.
Non rimane nulla in scena, solo un panorama grigio e un’ovattata atmosfera, fuori dal tempo e dallo spazio.
Padre di famiglia ingordo di monete, vorace di piani loschi e proficui, Arpagone innalza una lode al denaro, a discapito della felicità dei figli, destinati a sposare persone prestigiose non amate. Dodici mila scudi d’oro stipati in una cassetta in giardino e servi, cuochi, governati come marionette, intrappolati dai fili della bramosia, stretti nella rete del risparmio convulso.
L’avarizia di cui Arpagone è l’officiante ha contagiato tutti, e chi non ha il dio denaro come fine ultimo, ha comunque un interesse da difendere.
Ognuno reagisce con risate spasmodiche, azioni ripetute, attenti a non sforzare gli stretti limiti di una scena cinematografica; ogni passo falso sarà smorzato dal cast di produzione che punta le luci, monitora e ne riprende i movimenti.
Una commedia tragica di cabaret nero in cui la regia di Martinelli prevede cambi di scena gestiti da luci espressive, avvolta in stacchi improvvisi di luce e in un buio nel quale i personaggi nascondono i propri segreti. È in questa culla che il padre-padrone di casa invoca il pubblico a resuscitarlo: “povero mio denaro, amico mio caro… se tu non ci sei, è finita per me”.
E il denaro viene rubato, Arpagnone dubita di tutti, è disposto a tutto pur di riaverlo.
Ma nella cassetta-casetta degli orrori, controllata a vista da telecamenre, l’happy ending non può mancare, il cine-spettatore lo pretende!
Eccolo servito dal regista in persona che dalla platea interagisce con gli attori, risolve i misfatti in una cornice in cui non si può non applaudire felice e contenti.
Un “Avaro” forever young
di Giulia Marchetti
Non è il solito
vecchio smanioso di denaro: l'Arpagone, interpretato da Ermanna Montanari nell'Avaro del Teatro delle Albe, rifiuta
l'età che avanza e la vecchiaia e questo
rende il personaggio un archetipo riconoscibile per i nostri giorni. È un uomo
burbero, cocciuto e permaloso, che impone le proprie decisioni sugli altri
impotenti personaggi; gli attori diventano in scena marionette manovrate
automaticamente. dai movimenti convulsi e frenetici. Il conflitto viene reso
dal regista Marco Martinelli con l'utilizzo di luci da discoteca e una colonna
tecno-musicale di squarci sonori assordanti. Questo sottofondo sovrasta le voci
dei personaggi, a eccezione di quelle dei due vecchi della storia, Arpagone e
Anselmo, perché in possesso di microfono. Ciò li pone sullo stesso piano
autorevole e consente a Anselmo di divenire il risolutore delle controversie
andate in scena. Vecchi che pensano di essere ancora giovani e non vogliono
fare i conti con l'età che avanza: lo spettacolo diviene così parodia e critica
di una situazione ancora molto comune nella nostra società, la quale ci chiede
e ci impone di essere e sentirci sempre giovani.
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