Dall’interno di una piccola cella Celestini prova un discorso di respiro mondiale e forse utopico, immaginando di affacciarsi alla finestra della Storia mentre lo proclama. La finestra da cui papi, re e potenti hanno dettato le condizioni di vita e di morte dell’umanità, ma anche quella da cui sono saltati troppi anarchici, da cui sono volate idee diverse schiantandosi al suolo. In Pro Patria non si celebrano i 150 anni di unità nazionale, monarchici, ma la sconfitta della rivoluzione, repubblicana. “Quand’è che l’avete capito che era finita, Mazzini?”.
Lo stile incalzante del racconto è quello di sempre come anche l’immobilità del corpo dell’attore e in questo spettacolo trovano un nesso drammaturgico: sono i pensieri di un carcerato che parla da dentro una cella. Ascanio Celestini si rinchiude in un piccolo spazio di due metri per due immaginandone uno immenso. Gioca con l’idea del dentro e del fuori, del microcosmo recluso come specchio del mondo libero.
Mette in costellazione i tre risorgimenti italiani:
quello tanto celebrato, quello della lotta partigiana e quello degli anni di
piombo. Gioca con le date della Storia e con i suoi avvenimenti accavallando i
segmenti di tempo e sottolinenado che tutto si ripete: “il mondo è la totalità
dei fatti non delle cose” ripete ostinatamente. Alla fine il discorso è pronto
e lo rivolge al signor giudice a cui promette: “Io depongo le armi se lei
depone la legge”. E mentre lo pronuncia punta il dito contro lo spettatore.
Cambia ritmo di voce, diventa più lento, cambia la dizione, non più il
romanaccio a cui ci ha abituati ma un italiano chiaro e semplice.
Josella Calantropo
Nessun commento:
Posta un commento