lunedì 30 gennaio 2012

“La trilogia degli occhiali”: la realtà di Emma Dante

Occhiali per guardare meglio. Storie di solitudine, malattia, dolore e abbandono. Immagini perfette del vivere umano registrate da occhi attenti e curiosi. Tre pezzi di teatro legati dallo sguardo femminile di una regista che ha imparato a vedere. Gli occhiali di Emma Dante riflettono la realtà. Punto. Ma è sufficiente a teatro?
La trilogia degli occhiali è composta da Acquasanta, Il castello della zisa e Ballarini. Visti a Teatri di Vita, gli spettacoli viaggiano in  tournée nazionale e non solo. Sono realizzati con meticolosità certosina. Emma Dante sa quel che fa quando mette insieme i pezzi drammaturgici per la scena. Ha la teatralità nelle corde del suo essere: così la scenografia diventa drammaturgia, le parole superano il linguaggio, i costumi raccontano vissuti. Ma c’è qualcosa che non fa volare.
I suoi attori sono sempre bravissimi. La sua firma e il suo stile sono riconoscibilissimi. È un’artista che affonda le radici nella sua terra, nelle trame del suo intimo substrato, la sua visione del mondo è fatta di carne e sangue. È materiale, passionale e presente. E proprio per questo suo essere vero a qualunque costo, proietta gli spettatori difronte alla vita e nella trilogia gli mette addirittura gli occhiali per evitare equivoci. Non sia mai che qualcuno capisca una cosa per un’altra. Ma la possibilità di creare altri mondi? La possibilità di togliersi gli occhiali con il rischio forse di vedere peggio, magari poco chiaro, ma per provare ad aprire altri “occhi”? Questo non è proprio previsto negli spettacoli della regista siciliana. Eppure, forse, quell’isola tanto bene esaminata, così ben studiata e descritta, chiederebbe solo la possibilità di sognare.
Il filo conduttore delle tre storie: occhiali – tutti i personaggi ne indossano un paio; la struggente musica di un carillon – ogni storia è accompagnata da quel dolce suono; e realtà – tre punti di visti su tre storie diverse che dipingono vissuti.

Acquasanta: il primo sguardo su una realtà

Un mezzo uomo è dentro una mezza barca e di mestiere fa il mezzo mozzo “che è u chiu ‘mportante di tutta a’navigazione marittima”. Davanti a sé un cestino con su scritto: “Grazie, aiutatemi”. È ancorato – letteralmente - per i polsi e le caviglie ad ancore legate al soffitto. Come un burattino si muove, raccontando in lingua partenopea la sua odissea. È ironico da fare accapponare la pelle, è divertente da far piangere, è così ignorante da essere saggio. Sulla sua testa ondeggiano piccoli orologi che scandiscono ricordi e tempi passati. Una storia di solitudine e abbandoni cominciati quando a soli quindici anni viene imbarcato su una grande nave. È un mezzo mozzo ma ha tutta l’immensità dell’oceano dentro di sé: il mare diventa puro, santo e benedetto. Costretto a salpare per mari di cui amerà ogni singola goccia, si imbatterà in soprusi da parte dei componenti della ciurma. Ci viene fatta immaginare una violenza carnale scandita dallo sbattere dell’ancora in un tondello di ferro. Ultima di una serie di angherie che lo porteranno a essere lasciato sulla terraferma di cui non conosce niente e di cui teme tutto. Dopo il silenzio.
Il castello della zisa: il secondo racconto
In questo pezzo di teatro poche parole, ma tanta fisicità. Sulla scena ci sono quattro croci attaccati al soffitto con delle molle. Sotto ogni croce un fagotto. Al centro del palco due vecchie signorine si vestono camminando su e giù a ritmo regolare e sempre più incalzante. Mormorano e non scandiscono bene le frasi, sembra ma francese, ma non importa. Mano a mano che la loro vestizione si completa si comincia a intuire che sono delle suore. E che sono dentro a un ospedale e che sotto quei fagotti ci sono persone che hanno bisogno di tutto. Non riescono a compiere neppure la più piccola azione quotidiana. E ancora neppure una parola, solo emissioni di suoni simili a discorsi. Il ritmo è molto veloce con tempi comici. Scoprono un fagotto e per il povero paziente comincia la giornata. Prima lavarsi: si utilizza “ a sputazza” ovvero lo sputo. In siciliano vuol dire che è pulito per modo di dire, in maniera superficiale, ma in fondo è solo uno che sta male, che importa se non è lavato per bene. Poi c’è il rito della colazione: una suorina tiene lo sventurato e l’altra lo imbocca. Dopo inizia la riabilitazione: metodi di impatto duro. Maschere mostruose per provocare reazioni, palle lanciate con violenza per tentare una presa da parte del malato, se è necessario vengono somministrati schiaffi per scuoterlo, ma niente. Il paziente si accascia su un lato e cade. Fin quando finalmente avviene una specie di miracolo: si alza, si muove, afferra le cose, corre, salta e alla fine parla. E la prima cosa che dice e che vuole vedere sua zia. Che è molto grato alle suorine che si sono occupati di lui per tutto quel tempo, ma lui vuole accanto volti familiari. Si rende conto, però, che è solo. E da qui ricomincia la discesa verso la totale immobilità. Di nuovo punto e a capo. Tutti gli sforzi non sono serviti a nulla. Tutto da rifare. Tutto ritorna come era. Dopo si abbassano le luci. È la fine.
Ballarini: ultimo della trilogia

 

Una coppia di anziani signori balla al centro del palco. Sono ben vestiti per la festa. Un capodanno presumibilmente. Musiche di anni passati riaffiorano e sembra che provengano dalle menti dei vecchietti che si abbracciano e si coccolano a vicenda. Mano a mano il ritmo sale, la musica diventa più incalzante. Loro ringiovaniscono, sembra una visione alla Woody Allen. Si ripercorre la vita al contrario. Via via a ritroso passando per la nascita del primo figlio, alla prima notte di nozze, il matrimonio, poi la dichiarazione, il primo bacio, diventano adolescenti. E tutto questo senza fermare un attimo il loro ballo. Una danza continua e vertiginosa. E poi la musica inizia a scemare, si rimettono i panni da anziani coniugi, di chi ha vissuto
una vita insieme, fatta di attimi di felicità, di momenti di sconforto, ma anche di giorni normali. Il silenzio si fa sempre più imponente e alla fine invade la scena. Si ritorna alla realtà. Quelle visioni erano solo nella mente della vecchia signora che dopo aver accompagnato l’amore di tutta la sua vita nella cassa, non gli rimane altro che spegnere le luci della festa, accasciarsi sulla sua cassa e aspettare.
Una nota
Sicilia e occhiali fanno venire in mente un precedente illustre che di questo arnese così strano ne fece un ritratto molto diverso. Gli occhiali di Luigi Pirandello: “Avevo un giorno un pajo/ d'occhiali verdi; il mondo/ vedevo verde e gajo,/ e vivevo giocondo./ M'abbatto a un messer tale/ dall'aria astratta e trista./- "Verdi? - mi dice. - Male!/ Ti sciuperai la vista./ Sù, prendi invece i miei:/ vedrai le cose al vero!" -/ Li presi. Gli credei./ E vidi tutto nero./ Ristucco in poco d'ora/ d'un mondo così fatto,/ buttai gli occhiali, e allora/ non vidi nulla affatto”.
Forse il teatro deve far vedere “verde”? Forse.
Josella Calantropo

Nessun commento:

Posta un commento