È la terza volta che Magelli mette in scena questo
spettacolo. Ma non è una rivisitazione di quelle precedenti è una nuova
versione: “Sono mille i modi di affrontare Il
Giardino e cento volte di più i modi di parlarne. Eppure la voglia di
realizzare questo testo non cessa mai” – dice nelle note di regia – “credo che
sia il tempo perduto della vita che è irrimediabilmente trascorsa a cambiare
noi e i testi che mettiamo in scena, a rendere tutto diverso da come lo avevamo
pensato, a trasformare la nuova lettura spesso nell'opposto di quello che si
era "sentito"prima. E Čechov pare essere il campione della
trasformazione: ti parla sempre in modo diverso”.
Le vicende di Ljubov' Andreevna Ranevskaja, proprietaria terriera, in questa
versione interpretata da Valentina Banci, e della sua famiglia, dei servitori e di coloro che girano
intorno a quel giardino sono raccontate su un palco completamente nudo. Gli
unici oggetti ammessi sono delle corde che si alzano mano a mano che la trama
si infittisce, creano ostacoli allo sguardo dello spettatore. La crisi che si
abbatte sulla famiglia, i debiti contratti, i soldi sperperati, sono la causa
della vendita dell’unico bene che ricorda un tempo andato che non può più tornare:
il giardino dei ciliegi. La scenografia minimalista mette al centro la parola
che fa da padrona nella messa in scena di Paolo Magelli. In questo
spettacolo la regia si vede e si sente.
Muovendosi tra sogno e realtà, tra un “come eravamo”
e un “come siamo diventati”, i personaggi sono come bambini viziati, ricchi
senza averne il merito e incapaci di custodire un’eredità. Fanno finta di non
vedere la crisi che si avvicina. Come struzzi mettono la testa sotto la sabbia,
non riescono ad affrontare la realtà. Hanno tutte le potenzialità per capire,
per elevarsi e diventare persone migliori, ma si arrendono alle loro
piccolezze. Hanno l’intuizione del sogno ma non riescono a sfruttarne la
potenza. Sentono la musica di un ricordo lontano, ma non prendono posizione.
Sono sognatori senza averne le capacità. Come circensi dilettanti hanno i piedi
per aria: saltano, giocano, ballano, ridono come galline, piangono come
coccodrilli, corrono, se ne infischiano, aspettano un miracolo (forse) che
qualcosa succeda (sicuro). Eterni adolescenti sono esagerati e esasperati nei
modi di condurre una vita dissoluta. E il poeta si allarga: nel testo ci
ricorda che la tragedia del giardino riguarda tutta la Russia. Solo il
maggiordomo, Firs, stanco, di una vecchiaia disarmante, riesce a essere lucido,
a capire e a percepire la tragedia imminente. Le sue battute tuonano come le massime
di un “saggio ignorante”.
E se Čechov ha messo la poesia, gli attori questa
volta hanno messo il corpo e la voce. La regia non è andata a cercare il lato
psicologico dei personaggi, non ha voluto mostrare un naturalismo di altri
tempi, si è dedicata agli esercizi di training vistosamente messi in mostra
dalla compagnia bella e giovane composta da quella del Teatro Stabile della Toscana e da quella del Teatro Stabile di Sardegna. La regia gioca con la bassezza della
carne in opposizione alla leggerezza della poesia. Gli attori hanno davvero un fisico
bestiale non si fermano un attimo e corrono per spostarsi da una parte all’altra
del palco. La loro bravura si percepisce da ogni singolo movimento, dalle maschere
facciali, dalle voci e dal corpo. Azioni fisiche in evidenza, quindi, in questa
messa in scena è la forma che diventa contenuto.
E poi il
lungo addio alla casa e al giardino. Anche in questa occasione il dolore per l’addio
viene gestito in modo infantile: è sincero, o almeno sembra, ma si trasforma in
ridicolo dato che si dimenticano del fedele maggiordomo Firs che sfinito si
accascia e aspetta la morte. Ma Čechov non smette di stupire e affida a un paio
di stivali cigolanti il compito di puntellare di ironia la tragedia.
Alla fine è la poesia che prende posto in teatro e
ondeggia sulle coscienze con un monito per tutti diretto e sincero: “ Che ci
andate a fare a teatro? Invece di andare a teatro dovreste guardarvi intorno!
Che ne avreste bisogno! La vita che fate, così grigia… La quantità di cose
inutili che dite!”
Josella
Calantropo
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