mercoledì 18 gennaio 2012

Corpo e poesia: basta l’essenziale. “Il giardino dei ciliegi” diretto da Paolo Magelli

Se sul palco non ci sono quinte, non ci sono arredi, non ci sono scene, cosa rimane? I corpi atletici degli attori sottoposti a ritmi frenetici e la poesia di un Anton Pavlovič Čechov che, dopo più di un secolo, sa ancora essere attuale. Visto all’Arena del Sole di Bologna, Il giardino dei ciliegi messo in scena da Paolo Magelli fa emergere l’essenziale.
È la terza volta che Magelli mette in scena questo spettacolo. Ma non è una rivisitazione di quelle precedenti è una nuova versione: “Sono mille i modi di affrontare Il Giardino e cento volte di più i modi di parlarne. Eppure la voglia di realizzare questo testo non cessa mai” – dice nelle note di regia – “credo che sia il tempo perduto della vita che è irrimediabilmente trascorsa a cambiare noi e i testi che mettiamo in scena, a rendere tutto diverso da come lo avevamo pensato, a trasformare la nuova lettura spesso nell'opposto di quello che si era "sentito"prima. E Čechov pare essere il campione della trasformazione: ti parla sempre in modo diverso”.
Le vicende di Ljubov' Andreevna Ranevskaja, proprietaria terriera, in questa versione interpretata da Valentina Banci, e della sua famiglia, dei servitori e di coloro che girano intorno a quel giardino sono raccontate su un palco completamente nudo. Gli unici oggetti ammessi sono delle corde che si alzano mano a mano che la trama si infittisce, creano ostacoli allo sguardo dello spettatore. La crisi che si abbatte sulla famiglia, i debiti contratti, i soldi sperperati, sono la causa della vendita dell’unico bene che ricorda un tempo andato che non può più tornare: il giardino dei ciliegi. La scenografia minimalista mette al centro la parola che fa da padrona nella messa in scena di Paolo Magelli. In questo spettacolo la regia si vede e si sente.
Muovendosi tra sogno e realtà, tra un “come eravamo” e un “come siamo diventati”, i personaggi sono come bambini viziati, ricchi senza averne il merito e incapaci di custodire un’eredità. Fanno finta di non vedere la crisi che si avvicina. Come struzzi mettono la testa sotto la sabbia, non riescono ad affrontare la realtà. Hanno tutte le potenzialità per capire, per elevarsi e diventare persone migliori, ma si arrendono alle loro piccolezze. Hanno l’intuizione del sogno ma non riescono a sfruttarne la potenza. Sentono la musica di un ricordo lontano, ma non prendono posizione. Sono sognatori senza averne le capacità. Come circensi dilettanti hanno i piedi per aria: saltano, giocano, ballano, ridono come galline, piangono come coccodrilli, corrono, se ne infischiano, aspettano un miracolo (forse) che qualcosa succeda (sicuro). Eterni adolescenti sono esagerati e esasperati nei modi di condurre una vita dissoluta. E il poeta si allarga: nel testo ci ricorda che la tragedia del giardino riguarda tutta la Russia. Solo il maggiordomo, Firs, stanco, di una vecchiaia disarmante, riesce a essere lucido, a capire e a percepire la tragedia imminente. Le sue battute tuonano come le massime di un “saggio ignorante”.
E se Čechov ha messo la poesia, gli attori questa volta hanno messo il corpo e la voce. La regia non è andata a cercare il lato psicologico dei personaggi, non ha voluto mostrare un naturalismo di altri tempi, si è dedicata agli esercizi di training vistosamente messi in mostra dalla compagnia bella e giovane composta da quella del Teatro Stabile della Toscana e da quella del Teatro Stabile di Sardegna. La regia gioca con la bassezza della carne in opposizione alla leggerezza della poesia. Gli attori hanno davvero un fisico bestiale non si fermano un attimo e corrono per spostarsi da una parte all’altra del palco. La loro bravura si percepisce da ogni singolo movimento, dalle maschere facciali, dalle voci e dal corpo. Azioni fisiche in evidenza, quindi, in questa messa in scena è la forma che diventa contenuto. 
 E poi il lungo addio alla casa e al giardino. Anche in questa occasione il dolore per l’addio viene gestito in modo infantile: è sincero, o almeno sembra, ma si trasforma in ridicolo dato che si dimenticano del fedele maggiordomo Firs che sfinito si accascia e aspetta la morte. Ma Čechov non smette di stupire e affida a un paio di stivali cigolanti il compito di puntellare di ironia la tragedia.

Alla fine è la poesia che prende posto in teatro e ondeggia sulle coscienze con un monito per tutti diretto e sincero: “ Che ci andate a fare a teatro? Invece di andare a teatro dovreste guardarvi intorno! Che ne avreste bisogno! La vita che fate, così grigia… La quantità di cose inutili che dite!”

Josella Calantropo

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