Parole,parole, parole… una babele di frasi fatte che
pulsano nel cervello come ricordi fastidiosi e occludono le orecchie con il
loro carico di vuoto, di nulla. Parole che perdono significato, si trasformano
in esercizi di articolazione per bocche meccanicamente abituate a parlare che
ormai hanno perso la strada del senso, dimentiche della loro potenza di agire,
di creare ponti significanti, di unire uomini: di fondare comunità. Gli
ingredienti usati dalla compagnia ravennate Fanny&Alexander nella
costruzione dei loro Discorsi spingono a una riflessione civile sul significato
del parlare nei vari contesti di utilizzo e, soprattutto, nei diversi rapporti individuo-comunità
che di volta in volta si definiscono.
Si parte con Discorso Grigio, con questo
rigurgito di memorie uditive composto da discorsi ufficiali, fuori onda, motti
di spirito e trovate più o meno raccapriccianti della nostra classe politica. A
dare corpo e voce in maniera encomiabile al purtroppo vasto repertorio è Marco
Cavalcoli: gesti secchi e parole mozze formano la partitura scenica di un
allenamento ai limiti dello sfinimento per questo politico in maniche di
camicia (senza giacca, a imitazione dell’immagine restituita dall’emergente
classe politica nei discorsi pubblici). Cuffie calate e microfono alla mano, l’attore
si barcamena nel mare nero del dire, dove tra tutti spicca il reiterato
“credevo fosse ancora una prova, eh…dovevate dirmelo”. È un crescendo di
ilarità per il pubblico, ma è un riso amaro quello che ne consegue, come
giustamente riflette Nicola Bonazzi nell’incontro post-spettacolo con la
compagnia: la potenza catartica del teatro ha ancora il suo ruolo nella
comunità che si riconosce come co-protagonista portata in scena (la presenza,
poi, di Romano Prodi tra il pubblico dell’ITC rende la presa di coscienza ancor
più esilarante). Per fortuna, siamo ancora coscienti, non fagocitati del tutto
dalla cultura del vuoto ridondante in cui viviamo, e per fortuna riusciamo
ancora a riconoscere l’ironia del tragico quotidiano e sociale sul palco. L’attore
in scena, adesso con la giacca, non rappresenta tanto un politico in
particolare, quanto un corpo pronto alla possessione a cui adegua gesto e
parola con una capacità imitativa notevole. Man mano che lo spettacolo va
avanti tutto si frammenta: le frasi diventano parole mozze, il gesto arriva
allo spastico e il discorso politico lascia spazio alla costruzione del suo
simulacro.
Entra in scena un mascherone che ricorda tratti fisiognomici dei
vari volti responsabili dell’ultimo ventennio italiano, arricchito da un paio
di mani smisurate che rimandano a gestualità caratteristiche del nuovo MoVimento
politico. Il fantoccio si lancia poi in un girotondo senza sosta, in cui la
partitura fisico-vocale diventa completamente surreale, grazie anche al ruolo
fondamentale della musica (merito di Mirto Baliani) che accompagna questo corpo non più umano, ma puramente iconico. Il risultato è un disco rotto di parole
buttate a caso che hanno perso a tal punto il loro senso da trasformarsi in
canzone e un corpo schiavo di questa circolarità di rimandi che non riesce a
far altro se non muoversi in tondo.
Arriva il tanto agognato e sofferto
“discorso” fatto di parole vuote a cui sopperisce un silenzio altamente comunicativo: occhi
negli occhi Cavalcoli ci riporta nel cerchio dell’orchestra, nel teatro
dell’origine dove il dialogo è continuo ma senza voce. Dove c’è comunità.
La seconda tappa, Discorso giallo, non è da meno per
complessità dell’argomento trattato: se nella “prima parte” il discorso del
medium radio-televisivo aleggiava nella dimensione totalizzante del parlato,
qui diventa punto vitale dello spettacolo insieme alla pedagogia. È una
riflessione che si costruisce “nel nome di Maria”: partendo dalle lezioni scolastiche
televisive del maestro AlbertoManzi, per poi trattare del luccichio inquietante del talento infantile
portato alla ribalta da Sandra Milo, Chiara Lagani arriva infine all’incontro surreale De
Filippi-Montessori. Qui, più che al riso amaro, lo spettatore è indotto al silenzio
riflessivo: l’icona della pedagogia italiana si trova a dialogare delle sue passate
difficoltà con il sistema scolastico di fronte al nume tutelare dello share
televisivo, Maria De Filippi. Maria Montessori, l’immagine dell’insegnamento
(che coerentemente l’attrice, nei panni della conduttrice di talent, denota
come la signora delle mille lire) è ospitata in quello che è l’odierno spazio
riservato alla pedagogia in televisione: il talent-show.
Viene evidenziata la perdita di
ogni valore della pedagogia, nel momento in cui le dinamiche dell’insegnamento
vengono strumentalizzate e ingabbiate nella logica dello share televisivo. Tuttavia il modus operandi non cambia anche in
questo secondo discorso: il legame con la realtà è sempre presente grazie a rimandi
chiari, la partitura scenica è un continuum fisico-vocale che spesso arriva a
momenti di vitalità e schizofrenia estrema grazie all’utilizzo da parte di entrambi
gli attori di auricolari, con i quali vengono impartiti ordini in diretta. Il metodo
usato è dunque quello dell’induzione, ormai caro alla compagnia.
A questo punto il riferimento all’educazione tradizionale è
reso evidente da una Chiara Lagani in grembiule e codini: schiaffi improvvisi
interrompono il racconto di cinquant’anni di storia del costume, dagli albori
tentennanti di una società che tenta di usare un nuovo mezzo per formare
individui non più vittime dei loro limiti, fino al pericoloso binomio
talento-successo inculcato a una massa adolescenziale. Si respira un’atmosfera
repressiva: voci infantili interrotte nei loro risolini da divieti chiari e
perentori, gli schiaffi già citati che percuotono le guance di menti troppo
innocenti per capire la “misura del buonsenso”. La pedagogia porta a una negazione dal reale, tramite
due strade diverse ma entrambe dominate dall’ipocrisia della nostra cultura
educativa: da un lato la società del sorriso e del finto perbenismo del
palinsesto televisivo, dall’altro la dimensione scolastica che non consente la
libera espressione del singolo. Il futuro cittadino, e quindi membro della
comunità, recepisce perciò questo metodo educativo come una gabbia di regole inculcata
e che non ha nulla a che fare con la sua crescita quotidiana: la scuola non è
come l’amore, recita l’attrice seduta al suo banco nel ruolo di bambino
sognatore.
Alla fine arriva l’icona della pedagogia italiana, ovvero il
faccione della Montessori, dei cui insegnamenti e della cui personalità c’è
rimasto, nel ricordo, il sorriso bonario sul vecchio conio. Il silenzio nel
finale viene rotto dalla risata noncurante di una maschera di plastica: una
bambola senza identità si scopre sotto il mascherone, e si contrappone alla scritta IO che Chiara Lagani porta incisa sui palmi sin dall'inizio del suo discorso.
Una riflessione sulla perdita di coscienza del ruolo del
discorso nella società, portata avanti grazie anche alla potenza denotativa del
colore: le tonalità scelte sono proprio gli spettogrammi di ciascun discorso,
come il grigio è il colore dell’indefinito, così il giallo è il colore
dell’ammonimento. Tuttavia, la scelta
non è così univoca: come ogni colore ha le sue sfumature e i suoi possibili
significati, così ogni discorso ha le sue possibilità di interpretazione, di
ipotesi.
È ancora un lavoro in corso quello che articola il progetto di messa
in scena dei sette Discorsi: una ricerca che non si
affanna nel redigere tesi, ma continua ad interrogarsi. La prossima tappa
toccherà a marzo Castrovillari, con Discorso Celeste che nella sua indagine
unisce, in un curioso binomio, i due campi religione e sport: la ricerca si
eleva verso l’alterità del corpo e dello spirito, verso un cielo che, si spera,
è sempre più blu.
Disorso Grigio – Disorso Giallo di Fanny&Alexander
con Marco Cavalcoli, Chiara Lagani
regia di Luigi de Angelis
Visto a ITC – Teatro
di San Lazzzaro, l'8 febbraio 2014
Elvira Scorza
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