mercoledì 23 gennaio 2013

Dalle pagine di un libro al palco di un teatro


Dal 16 al 20 gennaio Pietro Floridia lascia la cabina di regia e calca la scena dell’ITC Teatro di San Lazzaro per raccontarci il suo Teatro in Viaggio. Lungo le rotte dei migranti.

Sì, viaggiare. Lasciarsi guidare dalle storie che ti entrano nella pelle in anni e anni di lavoro con i rifugiati politici, con gli immigrati, con “quelli che vengono da...” che poi nessuno si chiede davvero da dove vengono, ma che adesso sono qui. 

O meglio, che sono quasi qui. Nasce da questo “quasi”, dal bisogno di capire perché un immigrato ti rimprovera di dimenticare la sua parte altrove, il viaggio di Pietro Floridia. Verso il Senegal, verso Diol Kadd dove ha casa Mandiaye, attore della Compagnia delle Albe che da quel villaggio era partito, da quella casa era scappato ma che adesso lì torna. Forse anche lui ha lasciato un “quasi” in sospeso dall’altra parte del mare? Non resta che scoprirlo, non resta che mettersi in cammino: Floridia, il Gabo e il Lando; l’uomo dal pizzetto, il contadino-guerriero maori parmense e il Land Rover trentenne si mettono in viaggio. O almeno il Lando ci prova, tra nuotatine nell’oceano e avventurosi combattimenti contro la lancetta del carburante degni di un mezzogiorno di fuoco nel Sahara. E mentre Floridia ci stupisce e si stupisce per la sua capacità di raccontare, di portarti dentro la storia, di farti ridere fino alle lacrime con la sua non-padronanza del francese e di farti commuovere un attimo dopo, davanti a una giovane che racconta di come un amore lontano l’abbia spezzata in due portandosi dietro una parte di lei, Gabo guarda. Ogni tanto fa si con la testa, Gabo, e ogni tanto se la ride, come i vecchi amici che quella storia non solo l’hanno vissuta pelle a pelle con te, ma l’hanno già sentita mille volte e ogni volta se la gustano con lo stesso piacere. Mentre scorrono immagini sullo schermo, mentre le parole si traducono in pensieri, il viaggio nello spazio diventa viaggio nel tempo e Floridia si mette al centro del cerchio, quel mitico cerchio che in tutti i laboratori teatrali richiede una persona coraggiosa da ascoltare, da interrogare o semplicemente da osservare. Ritorna bambino, 
Pietro, smette di essere il regista, l’uomo che guida e si lascia guidare dal tempo che sembra affondare, da Issan e dalle sue mani bruciate nel tentativo di spegnere i propri sogni, dal racconto di Said, sceso dalla propria vita per recuperare quella di un padre assente. E mentre ci osserva commuoverci nel sentire la storia del suo, di padre, e di come in questo viaggio forse non avrà ritrovato sé stesso ma ha riscoperto il sonno, gli incubi e i modi con cui si vincono, Pietro ci regala momenti di alta riflessione, ci regala la similitudine Madre–Casa e Padre-Viaggio: ogni viaggio nel mondo è un viaggio alla ricerca di un padre, e padre nella Bibbia è colui che sa partire. Come Telemaco viaggiamo e come Enea salviamo. Come quelli là, noi siamo un “quasi” spesso senza un padre da salvare. Pietro si trasforma nel piccolo Ercole e il Gabo/Lando diventa il centauro Chirone fatto di ferro e carne. Poi, come in ogni cammino che si rispetti, arriva lo sconosciuto dal sorriso buono a farti tremare le gambe e la voce: arriva il dubbio che in realtà gli anni passati a cercare storie, i silenzi in cui hai raccolto le tragedie di chi vive il teatro come una forma di salvezza dalla sofferenza estrema non sono altro che goffi tentavi di illudere te stesso e gli altri, spudorati meccanismi di autodifesa che metti in atto per non vedere il confine. 
Un vecchio sdentato ti racconta di suo figlio, chiuso in un campo circondato da un muro. Tu gli racconti di come un muro si può bucare trasformandolo in uno schermo su cui proiettare un intero festival cinematografico e ti ritrovi ammutolito davanti a una bocca urlante che ti mette davanti alla nuda verità: un muro è sempre un muro, se lo trasformi lo accetti e invece i muri devono essere abbattuti, non devono essere coperti, non devono essere dimenticati. <<Perché io non voglio un film, voglio riabbracciare mio figlio>>: in un attimo il nostro eroe muore affogato dall’ansia che forse quel vecchio non ha tutti i torti ma in un attimo ritorna la luce nei suoi occhi; torna alla mente Badolato, torna alla mente Sied che ha imparato a recitare per salvare la vita a sua nipote. Sherazad torna alla vita, e da quel nero assoluto sorge la scoperta di un “quasi”:eccolo, è quel muro di letteratura che protegge dalla vita il “quasi” del piccolo Pietro ora diventato grande. Si arriva alla terra di nessuno, si arriva lì dove non c’è identità perché non c’è diversità, dove tutto è l’opposto di tutto e vedi bambini vivere da grandi, dromedari brucare nelle caserme, macchine far da salotto. Qui, in pieno Senegal, ritroviamo Mandiaye e la storia di sua nonna e del baobab che decise di sposare una volta vedova. Qui troviamo chi è partito senza sapere che, un giorno, sarebbe tornato per salvare quella terra mangiata dal deserto, quel villaggio abbandonato dai sogni, quegli uomini che sono lì. E stavolta il loro stare non conosce “quasi”.

Elvira Scorza

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