Dal 16 al 20 gennaio Pietro Floridia
lascia la cabina di regia e calca la scena dell’ITC Teatro di San
Lazzaro per raccontarci il suo Teatro in Viaggio. Lungo le rotte
dei migranti.
Sì, viaggiare.
Lasciarsi guidare dalle storie che ti entrano nella pelle in anni e
anni di lavoro con i rifugiati politici, con gli immigrati, con
“quelli che vengono da...” che poi nessuno si chiede davvero da
dove vengono, ma che adesso sono qui.
O meglio, che sono quasi qui.
Nasce da questo “quasi”, dal bisogno di capire perché un
immigrato ti rimprovera di dimenticare la sua parte altrove, il
viaggio di Pietro Floridia. Verso il Senegal, verso Diol
Kadd dove ha casa Mandiaye, attore della
Compagnia delle Albe che da quel villaggio era partito, da quella
casa era scappato ma che adesso lì torna. Forse anche lui ha
lasciato un “quasi” in sospeso dall’altra parte del mare? Non
resta che scoprirlo, non resta che mettersi in cammino: Floridia, il
Gabo e il Lando; l’uomo dal pizzetto, il contadino-guerriero maori
parmense e il Land
Rover trentenne si mettono in viaggio. O almeno il
Lando ci prova, tra nuotatine nell’oceano e avventurosi
combattimenti contro la lancetta del carburante degni di un
mezzogiorno di fuoco nel Sahara. E mentre Floridia ci stupisce e si
stupisce per la sua capacità di raccontare, di portarti dentro la
storia, di farti ridere fino alle lacrime con la sua non-padronanza
del francese e di farti commuovere un attimo dopo, davanti a una
giovane che racconta di come un amore lontano l’abbia spezzata in
due portandosi dietro una parte di lei,
Gabo guarda. Ogni tanto fa si con la testa, Gabo, e
ogni tanto se la ride, come i vecchi amici che quella storia non solo
l’hanno vissuta pelle a pelle con te, ma l’hanno già sentita
mille volte e ogni volta se la gustano con lo stesso piacere. Mentre
scorrono immagini sullo schermo, mentre le parole si traducono in
pensieri, il viaggio nello spazio diventa viaggio nel tempo e
Floridia si mette al centro del cerchio, quel mitico cerchio che in
tutti i laboratori teatrali richiede una persona coraggiosa da
ascoltare, da interrogare o semplicemente da osservare. Ritorna
bambino,
Pietro, smette di essere il regista, l’uomo che guida e si
lascia guidare dal tempo che sembra affondare, da Issan e dalle sue
mani bruciate nel tentativo di spegnere i propri sogni, dal racconto
di Said, sceso dalla propria vita per recuperare quella di un padre
assente. E mentre ci osserva commuoverci nel sentire la storia del
suo, di padre, e di come in questo viaggio forse non avrà ritrovato
sé stesso ma ha riscoperto il sonno, gli incubi e i modi con cui si
vincono, Pietro ci regala momenti di alta riflessione, ci regala la
similitudine Madre–Casa e Padre-Viaggio: ogni viaggio nel mondo è
un viaggio alla ricerca di un padre, e padre nella Bibbia è colui
che sa partire. Come Telemaco viaggiamo e come
Enea salviamo. Come quelli là, noi siamo un “quasi”
spesso senza un padre da salvare. Pietro si trasforma nel piccolo
Ercole e il Gabo/Lando diventa il centauro Chirone fatto di ferro e
carne. Poi,
come in ogni cammino che si rispetti, arriva lo
sconosciuto dal sorriso buono a farti tremare le gambe e la voce:
arriva il dubbio che in realtà gli anni passati a cercare storie, i
silenzi in cui hai raccolto le tragedie di chi vive il teatro come
una forma di salvezza dalla sofferenza estrema non sono altro che
goffi tentavi di illudere te stesso e gli altri, spudorati meccanismi
di autodifesa che metti in atto per non vedere il confine.
Un vecchio
sdentato ti racconta di suo figlio, chiuso in un campo circondato da
un muro. Tu gli racconti di come un muro si può bucare
trasformandolo in uno schermo su cui proiettare un intero festival
cinematografico e ti ritrovi ammutolito davanti a una bocca urlante
che ti mette davanti alla nuda verità: un muro è sempre un muro, se
lo trasformi lo accetti e invece i muri devono essere abbattuti, non
devono essere coperti, non devono essere dimenticati. <<Perché
io non voglio un film, voglio riabbracciare mio figlio>>:
in un attimo il nostro eroe muore affogato dall’ansia che forse
quel vecchio non ha tutti i torti ma in un attimo ritorna la luce nei
suoi occhi; torna alla mente Badolato, torna alla mente Sied che ha
imparato a recitare per salvare la vita a sua nipote. Sherazad torna
alla vita, e da quel nero assoluto sorge la scoperta di un
“quasi”:eccolo, è quel muro di letteratura che protegge dalla
vita il “quasi” del piccolo Pietro ora diventato grande. Si
arriva alla terra di nessuno, si arriva lì dove non c’è identità
perché non c’è diversità, dove tutto è l’opposto di tutto e
vedi bambini vivere da grandi, dromedari brucare nelle caserme,
macchine far da salotto. Qui, in pieno Senegal, ritroviamo Mandiaye e
la storia di sua nonna e del baobab che decise di sposare una volta
vedova. Qui troviamo chi è partito senza sapere che, un giorno,
sarebbe tornato per salvare quella terra mangiata dal deserto, quel
villaggio abbandonato dai sogni, quegli uomini che sono lì. E
stavolta il loro stare non conosce “quasi”.
Elvira Scorza
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