domenica 27 gennaio 2013

Saverio La Ruina tra le righe di un' intervista

Attore, drammaturgo e regista teatrale italiano, in tre parole: Saverio La Ruina.  Diplomato alla Scuola di Teatro di Bologna, prosegue la sua formazione con Jerzy Stuhr e lavora con Leo De Berardinis e Remondi e Caporossi. Vincitore di due premi UBU nel 2007 come Migliore attore italiano e per il Migliore testo italiano con Dissonorata e Un delitto d'onore in Calabria, è anche co-fondatore, con Dario De Luca, della compagnia Scena Verticale (1992).
Non meno importante il premio UBU 2012 come Migliore attore italiano con Italianesi.

-          Sappiamo che sei appena tornato dal Lussemburgo… Ce l’hai anticipato per telefono (in una delle conversazioni “di mediazione” per l’intervista, ndr)
-          Esattamente. Sono andato a vedere la messa in scena de “La Borto” (debuttato al Teatro India di Roma nel 2009) in giro per il Lussemburgo dal 24 ottobre fino al 22 novembre.
-          Cosa vuol dire per un regista, attore e autore, veder mettere in scena da qualcun altro i propri lavori?
-          È spiazzante. In Francia è stato già letto nel 2011 da una grande attrice, Valerie Dreville, che ha lavorato anche con Alain Resnais a Jean-Luc Godard. All’inizio aveva rifiutato per mancanza di tempo. Poi, a fine serata dopo la sua lettura, ci presentarono mi guardò con un’espressione stupita e mi disse: “Ma… ma sei un uomo!”. Era sicura che il testo l’avesse scritto una donna e questa sicurezza la legava all’interesse, alla forza che quelle parole avevano per lei. Anche una giornalista, intervistandomi, mi disse: “Sembra strano parlare con lei...sembra scritto da una donna”.

Saverio La Ruina in Dissonorata (2006)

-          Il fatto che a raccontare questa storia sia un uomo, in realtà, non toglie nulla allo spettacolo, anzi…
-          Perché fin dall’inizio ho cercato di interpretare la donna, già con Dissonorata nel 2006. Si ha davanti un uomo che dà voce a una donna vittima, e nel farlo si denuncia come carnefice. È la voce della donna, la sua esperienza, a venir fuori e a incantare lo spettatore. Solo se ci si nega a questo si vive il disincanto.
-          Adesso sei di ritorno da spettatore del tuo stesso testo, un vero e proprio spettacolo fatto da altri. Un’ esperienza… diversa!
-          Un’esperienza… stupefacente! È del tutto diverso da come l’ho fatto io: in questo spettacolo c’è una scenografia, impensabile nel mio La Borto. Il giovane regista ha pensato a lampadine calate dal soffitto che si illuminano e oscurano a seconda dell’evoluzione dello spettacolo.  Nel mio, invece, non c’è scenografia perché per me ognuno doveva riportare quel racconto alle proprie esperienze e viverlo nella sua realtà.
-          Altre differenze?
-          Beh, la protagonista qui è un’attrice di una certa età, anche abbastanza corpulenta. Appena l’ho vista ho detto: “Sì, può essere una probabile Vittoria” (è il nome della protagonista di La Borto, ndr). Poi nella loro cultura non esiste il termine “mammana”. In Calabria, è conosciuta anche come “la donna che fabbrica gli angeli”, perché, facendo abortire le donne dava vita a tanti angeli, a tanti bambini non nati. Probabilmente, questo concetto dei bambini trasformati in angeli può spiegare la scelta registica delle lampadine: possono sembrare delle stelle, legarsi all’idea del cielo... non so. Comunque la cosa più bella è che la scenografia non andava a muovere violenza allo spettacolo: non era descrittiva ma suggestiva, aggiungeva qualcosa in più rispetto al testo.
La Ruina in Italianesi
-          Anche Italianesi, lo spettacolo che hai portato in scena ai Teatri di Vita di Bologna, ha avuto successo all’estero
-          Sì… Valerie ha voluto farne una lettura in dialogo con me, presentata nel progetto Face à Face – Parole d’Italia per Scene di Francia al  Festival ActOral di Marsiglia. Festival internazionale delle arti e delle scritture contemporanee, e la traduzione è stata fatta da un’istituzione come la Maison Antoine Vitez di Parigi.
-          In Italia, invece, questo spettacolo è stato portato in scena all’interno di una vetrina particolare come quella del Teatro Valle occupato…
-          Ci chiesero di fare una residenza artistica al Valle durante la sua occupazione, in un progetto il cui obiettivo era dare visibilità ad artisti giovani, e così ci siamo “presentati” anche noi di Scena Verticale a gennaio, con Italianesi, per l’appunto.
-          Comunque si è creata una relazione particolare: una realtà teatrale, che cerca una società dove costruire un futuro, ospita uno spettacolo come il tuo, dove il protagonista cerca una patria reale a cui legare un passato: forse è una lettura un po’ contorta?
-          (ride) Beh, è contorta, ma ci sta. In effetti si cercava di dare un’identità teatrale al luogo: il Valle sarebbe diventato un contenitore commerciale; noi invece volevamo farlo diventare luogo del contemporaneo, casa delle drammaturgie, e la ricerca di identità è un punto forte in Italianesi. Quindi, non ci avevo pensato ma ci sta.
-          Parliamo del protagonista della storia: un altro eroe “laruiniano”, un altra persona sola alla ricerca di una comunità a cui raccontarsi.
Credi che questo aspetto si leghi anche ad una riflessione più o meno implicita sulla possibilità della tragedia oggi, concepibile finché vi saranno personaggi che cercano una comunità a cui parlare?
-          Quello che posso dire è che io cerco continuamente la comunità nei miei spettacoli. Qui Tonino (protagonista dello spettacolo Italianesi, ndr) cerca una comunità per raccontare di questa identità negata, e per costruire questo ho portato avanti un’analisi dell’invisibilità vissuta davanti alle istituzioni, alla gente e alla società. Il mio obiettivo primario è dare voce a chi voce non ha.
In Dissonorata ho voluto dare un’immagine della donna nel meridione diversa dalla piagnucolante dea del focolare: nelle società del sud Italia la donna è la vera forza della famiglia, e volevo che questo fosse chiaro.
-          I tuoi personaggi sono pensati anche grazie a un lavoro particolare sulla voce, sul tono: sonorità basse, sussurri che a volte fanno perdere la risonanza, regalando percezioni profondi, sentimenti. Tonino, in Italianesi, sussurra un “malinconia” da togliere il fiato...
-          La voce è cifra del personaggio. Le cose urlate non mi sono mai piaciute, non si capiscano. Preferisco lavorare in antitesi, usare il sussurro invece che i modi di esprimersi oggi diffusi nella società: insomma tutti sanno chi è Sgarbi, ma nessuno si ricorda mai cosa dice.
-          Dove hai conosciuto Tonino?
-          L’incontro con la realtà di Tonino è stato del tutto casuale: stavo guardando la tv e in un programma parlava uno di questi “italianesi”, tra l’altro sono pochissimi quelli rimasti in vita, molti sono morti addirittura nelle carceri.
-          Conoscevi già la sua storia o eri ignaro di tutto, come la maggior parte di noi?
-          Non ne sapevo nulla e sinceramente mentre guardavo la tv non ci credevo, mi sembrava tutto costruito. Allora mi sono incuriosito e ho iniziato a cercare il signore che avevo sentito parlare in trasmissione. Ho dovuto vincere ritrosie e sospetti, piano piano ho cercato di fargli capire che non volevo nulla, se non la sua memoria... i suoi ricordi, per poter divulgare.
-          È stato difficile convincerlo a raccontare?
-          Mi sono dovuto conquistare la sua fiducia. La vita di questa gente è stata sempre controllata. Certo, non siamo ai livelli di dittature come il nazismo ma le sottili vessazioni psicologiche e i continui spionaggi a cui era sottoposta la loro vita portano i pochi sopravvissuti a sentirsi eternamente sotto osservazione. E questo passato li porta a diffidare. Sono riuscito a superare queste difficoltà e a scoprire tante piccole realtà: le lettere che i figli scrivevano ai padri, i soldati e i civili che si ricostruivano una vita all’interno dei campi, le donne che si sposavano con italiani poi rimpatriati, costrette a vent’anni ad aspettare una vita fino al 1991, per rivedere i propri mariti. Poi ho conosciuto l’associazione A.N.C.I.F.R.A. e la memoria che gelosamente difendono dall’oblio.
-          Questo spettacolo quindi è nato da un bisogno di…
-          Capire. Volevo capire.
-          E far capire, aggiungerei. Anche perché il forte impegno civile di questo spettacolo è stato riconosciuto: ricordiamo che qualche giorno fa hai vinto il Premio Landieri come miglior attore.
-          Ricevere un premio oggi non fa notizia, anche perché di premi ce ne sono un’infinità. Ma il premio Landieri, come dici tu, è legato all’impegno civile e ti fa toccare una realtà che ha bisogno di coscienza, ha bisogno di sconfiggere l’omertà. Questo premio è legato alla morte di un ragazzo, Antonio Landieri, il cui ricordo sta faticosamente uscendo dalla merda che la camorra ci aveva buttato sopra: si era cercato di legittimare la sua morte costruendo il sospetto di un suo possibile legame con la malavita. Anche qui si parla di un’identità da ricostruire, anzi un’identità da restituire alla verità. Riceverlo mi ha fatto pensare al forte senso che il teatro ha ancora oggi nel sociale. Sono contento del valore che hanno legato a questa realtà . Ma abbiamo avuto un riconoscimento anche da un’altra realtà simile, il premio Teresa Pomodoro per il teatro dell’Inclusione che è sempre legato all’impegno civile, al dar voce agli ultimi... ha una giuria niente male: Ronconi, Barba…


-          Ancora un altro monologo, un’anima sola che parla a una comunità, accompagnato da una sedia.
-          È un monologo diverso. Volevo distaccarmi dai lavori precedenti rimanendo però in armonia con le esigenze del mio scrivere: riportare nella scrittura le linee geometriche della dittatura che imponeva una squadratura disumana alla vita degli internati. Tonino è un personaggio puro ed è anche vero che lo accompagna ancora una sedia, ma qui la sedia ha una funzione drammaturgica: è di ferro, ha una grata come seduta e la grata richiama la prigione; ha le rotelle e sostiene lo zoppicare di Tonino, lo sorregge, gli dà forza: ha una ragione nel suo essere in scena, non è semplicemente il posto dove si siede il personaggio, come invece era, per esempio, per Vittoria (si riferisce alla protagonista di Dissonorata, ndr).  Anche le musiche sono più lavorate. È un progetto che segna un’evoluzione. Tema nuovo, elementi nuovi. È vero che anche qui grande importanza è affidata ai contenuti, ma questa è un’arma a doppio taglio: spesso si confonde l’importanza dei temi trattati con l’importanza dello spettacolo e si giustifica l’uno con l’altra, così che molti spettacoli poco validi teatralmente sono, diciamo così, “fraintesi” nel loro valore per il contenuto che invece merita attenzione. Il contenuto è importante ma il lavoro si giudica attraverso la percezione e la percezione è forte solo se è teatrale, al servizio di regole e contenuti.
-          Anche qui sei partito da ricordi particolari, difficili da custodire. Come autore tu cerchi storie, racconti, scavi nei ricordi e a volte anche nei dolori.
Io non cerco, ho una sorta di radar sempre acceso. Quando sento la necessità forte di un argomento, la colgo. I miei personaggi sono popolari, lo capisci da come parlano: l’immediatezza sulla scena mi viene da questo linguaggio di strada ma anche dal lavoro che faccio su questo. Costruisco una struttura musicale nella mia scrittura, cerco ritmo e armonia per rendere questo “idioma” efficace. È un artificio che però non si deve sentire, e testo il mio lavoro leggendolo a persone che parlano quel “linguaggio della strada” da cui sono partito e su cui ho lavorato. Se arriva, se è seguito, allora il test è positivo. La forza del dialetto è incontrastabile: ci sono pezzi che penso in italiano e non mi suonano, poi li penso in dialetto e allora è tutto diverso, è tutto più forte ma questo a teatro succede da sempre: pensiamo a Goldoni, a Ruccello, a De Filippo. Poi in Italianesi la sfida è superiore: scrivere un testo in italiano e costruirci sopra un accento che sia capace di dare forza e potenza al parlato senza invaderlo.
-          Definiscici La Ruina studente del D.A.M.S. di Bologna...
-          Ma non solo del  D.A.M.S.. Sono diplomato alla Galante-Garrone e il mio maestro è Leo De Berardinis: il mio primo lavoro da attore è stato l’Amleto diretto da lui.
-          Ma il D.A.M.S. ha inciso anche sulla tua carriera da professionista, o sbaglio?
-          Sì, qualche anno fa Gerardo Guccini (docente di drammaturgia al DAMS di Bologna, ndr) e Dario Tommasello organizzarono in collaborazione con il Premio Riccione degli incontri per gli studenti tra Bologna e Messina, incontri che avevano come tema gli autori teatrali contemporanei. All’epoca mi ricordo che lessi quasi tre quarti di Dissonorata. Nello stesso periodo stavo pensando al soggetto di Italianesi, ne avevo un’idea.
-          E poi?
-          Ah sì, allora, in quel periodo avevo tra le mani Italianesi e lo proposi all’attenzione di Guccini. Mi disse: “Attenzione, questo personaggio ha una bella anima, ma dopo quest’esperienza del campo deve avere un’ala spezzata”. Sentire queste parole mi ha illuminato la parte buia di Tonino, ho iniziato a lavorare sulla parte nera dei colori, sull’amarezza del ritorno in Italia, sul dolore... sul suo essere zoppo. Guccini è per me un monito, un orizzonte di riferimento.
-          Ultima richiesta: una voce, un pensiero sul tuo teatro contemporaneo. Qualcosa da custodire gelosamente…
-          Oddio, è una domanda a cui è pericoloso rispondere… Credo che sia importante per il teatro contemporaneo ascoltare con il cuore. Certo, entra in gioco anche la ragione, ma non bisogna essere troppo autoriflessivi. È importante che il mio lavoro non lo capisca solo Franco Quadri, ma anche mia madre.
-          Non potevi dire cosa più bella. Grazie mille e buon lavoro!
-          Grazie a voi... Ciao gioia.

A caldo, chiuso il telefono, la prima cosa che mi viene da pensare è come sia importante, nel raccogliere voci dal teatro, il saper ascoltare. E questo è vero sia per chi il teatro lo fa, sia per chi il teatro lo osserva, lo guarda, lo pensa... e lo racconta. O almeno ci prova.
                                                                                                                                
                                                                                                          Elvira Scorza

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