Non
meno importante il premio UBU 2012 come Migliore attore italiano con Italianesi.
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Sappiamo che sei appena tornato dal Lussemburgo… Ce
l’hai anticipato per telefono (in una delle conversazioni “di mediazione” per
l’intervista, ndr)
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Esattamente. Sono
andato a vedere la messa in scena de “La
Borto” (debuttato al Teatro
India di Roma nel 2009) in giro per il Lussemburgo dal 24 ottobre fino
al 22 novembre.
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Cosa vuol dire per un regista, attore e autore, veder
mettere in scena da qualcun altro i propri lavori?
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È spiazzante. In
Francia è stato già letto nel 2011 da una grande attrice, Valerie
Dreville, che ha lavorato anche con Alain Resnais a Jean-Luc
Godard. All’inizio aveva rifiutato per mancanza di tempo. Poi, a fine serata
dopo la sua lettura, ci presentarono mi guardò con un’espressione stupita e mi
disse: “Ma… ma sei un uomo!”. Era sicura che il testo l’avesse scritto una
donna e questa sicurezza la legava all’interesse, alla forza che quelle parole
avevano per lei. Anche una giornalista, intervistandomi, mi disse: “Sembra
strano parlare con lei...sembra scritto da una donna”.
Saverio La Ruina in Dissonorata (2006) |
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Il fatto che a raccontare questa storia sia un uomo,
in realtà, non toglie nulla allo spettacolo, anzi…
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Perché fin
dall’inizio ho cercato di interpretare la donna, già con Dissonorata nel 2006. Si ha davanti un uomo che dà voce a una donna
vittima, e nel farlo si denuncia come carnefice. È la voce della donna, la sua
esperienza, a venir fuori e a incantare lo spettatore. Solo se ci si nega a
questo si vive il disincanto.
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Adesso sei di ritorno da spettatore del tuo stesso
testo, un vero e proprio spettacolo fatto da altri. Un’ esperienza… diversa!
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Un’esperienza…
stupefacente! È del tutto diverso da come l’ho fatto io: in questo spettacolo c’è una scenografia, impensabile nel
mio La Borto. Il giovane regista ha
pensato a lampadine calate dal soffitto che si illuminano e oscurano a seconda
dell’evoluzione dello spettacolo. Nel
mio, invece, non c’è scenografia perché per me ognuno doveva riportare quel
racconto alle proprie esperienze e viverlo nella sua realtà.
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Altre differenze?
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Beh, la
protagonista qui è un’attrice di una certa età, anche abbastanza corpulenta.
Appena l’ho vista ho detto: “Sì, può essere una probabile Vittoria” (è il nome
della protagonista di La Borto, ndr).
Poi nella loro cultura non esiste il termine “mammana”. In Calabria, è
conosciuta anche come “la donna che fabbrica gli angeli”, perché, facendo
abortire le donne dava vita a tanti angeli, a tanti bambini non nati.
Probabilmente, questo concetto dei bambini trasformati in angeli può spiegare
la scelta registica delle lampadine: possono sembrare delle stelle, legarsi
all’idea del cielo... non so. Comunque la cosa più bella è che la scenografia
non andava a muovere violenza allo spettacolo: non era descrittiva ma
suggestiva, aggiungeva qualcosa in più rispetto al testo.
La Ruina in Italianesi |
- Anche Italianesi,
lo spettacolo che hai portato in scena ai Teatri di Vita di Bologna, ha avuto
successo all’estero
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Sì… Valerie ha
voluto farne una lettura in dialogo con me, presentata nel progetto
Face à Face – Parole d’Italia per Scene di Francia
al Festival
ActOral di Marsiglia. Festival
internazionale delle arti e delle scritture contemporanee, e la
traduzione è stata fatta da un’istituzione come la Maison Antoine Vitez di Parigi.
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In Italia, invece, questo spettacolo è stato portato
in scena all’interno di una vetrina particolare come quella del Teatro Valle
occupato…
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Ci chiesero di
fare una residenza artistica al Valle durante la sua occupazione, in un
progetto il cui obiettivo era dare visibilità ad artisti giovani, e così ci
siamo “presentati” anche noi di Scena Verticale a gennaio, con Italianesi, per l’appunto.
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Comunque si è creata una relazione particolare: una
realtà teatrale, che cerca una società dove costruire un futuro, ospita uno
spettacolo come il tuo, dove il protagonista cerca una patria reale a cui
legare un passato: forse è una lettura un po’ contorta?
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(ride) Beh, è
contorta, ma ci sta. In effetti si cercava di dare un’identità teatrale al luogo:
il Valle sarebbe diventato un contenitore commerciale; noi invece volevamo
farlo diventare luogo del contemporaneo, casa delle drammaturgie, e la ricerca
di identità è un punto forte in Italianesi.
Quindi, non ci avevo pensato ma ci sta.
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Parliamo del protagonista della storia: un altro eroe
“laruiniano”, un altra persona sola alla ricerca di una comunità a cui
raccontarsi.
Credi che questo aspetto si leghi anche
ad una riflessione più o meno implicita sulla possibilità della tragedia oggi, concepibile
finché vi saranno personaggi che cercano una comunità a cui parlare?
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Quello che posso
dire è che io cerco continuamente la comunità nei miei spettacoli. Qui Tonino
(protagonista dello spettacolo Italianesi,
ndr) cerca una comunità per raccontare di questa identità negata, e per
costruire questo ho portato avanti un’analisi dell’invisibilità vissuta davanti
alle istituzioni, alla gente e alla società. Il mio obiettivo primario è
dare voce a chi voce non ha.
In
Dissonorata ho voluto dare
un’immagine della donna nel meridione diversa dalla piagnucolante dea del
focolare: nelle società del sud Italia la donna è la vera forza della famiglia,
e volevo che questo fosse chiaro.
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I tuoi personaggi sono pensati anche grazie a un
lavoro particolare sulla voce, sul tono: sonorità basse, sussurri che a volte
fanno perdere la risonanza, regalando percezioni profondi, sentimenti. Tonino,
in Italianesi, sussurra un
“malinconia” da togliere il fiato...
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La voce è cifra
del personaggio. Le cose urlate non mi sono mai piaciute, non si capiscano. Preferisco
lavorare in antitesi, usare il sussurro invece che i modi di esprimersi oggi
diffusi nella società: insomma tutti sanno chi è Sgarbi, ma nessuno si ricorda
mai cosa dice.
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Dove hai conosciuto Tonino?
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L’incontro con la
realtà di Tonino è stato del tutto casuale: stavo guardando la tv e in un
programma parlava uno di questi “italianesi”, tra l’altro sono pochissimi
quelli rimasti in vita, molti sono morti addirittura nelle carceri.
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Conoscevi già la sua storia o eri ignaro di tutto,
come la maggior parte di noi?
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Non ne sapevo nulla
e sinceramente mentre guardavo la tv non ci credevo, mi sembrava tutto
costruito. Allora mi sono incuriosito e ho iniziato a cercare il signore che
avevo sentito parlare in trasmissione. Ho dovuto vincere ritrosie e sospetti,
piano piano ho cercato di fargli capire che non volevo nulla, se non la sua
memoria... i suoi ricordi, per poter divulgare.
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È stato difficile convincerlo a raccontare?
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Mi sono
dovuto conquistare la sua fiducia. La vita di questa gente è stata sempre
controllata. Certo, non siamo ai livelli di dittature come il nazismo ma le
sottili vessazioni psicologiche e i continui spionaggi a cui era sottoposta la
loro vita portano i pochi sopravvissuti a sentirsi eternamente sotto
osservazione. E questo passato li porta a diffidare. Sono riuscito a superare
queste difficoltà e a scoprire tante piccole realtà: le lettere che i figli
scrivevano ai padri, i soldati e i civili che si ricostruivano una vita
all’interno dei campi, le donne che si sposavano con italiani poi rimpatriati,
costrette a vent’anni ad aspettare una vita fino al 1991, per rivedere i propri
mariti. Poi ho conosciuto l’associazione A.N.C.I.F.R.A. e la memoria che
gelosamente difendono dall’oblio.
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Questo
spettacolo quindi è nato da un bisogno di…
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Capire. Volevo
capire.
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E far capire, aggiungerei. Anche perché il forte
impegno civile di questo spettacolo è stato riconosciuto: ricordiamo che
qualche giorno fa hai vinto il Premio Landieri come miglior attore.
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Ricevere un
premio oggi non fa notizia, anche perché di premi ce ne sono un’infinità. Ma il
premio Landieri, come dici tu, è legato all’impegno civile e ti fa toccare una
realtà che ha bisogno di coscienza, ha bisogno di sconfiggere l’omertà. Questo
premio è legato alla morte di un ragazzo, Antonio Landieri, il cui ricordo sta faticosamente
uscendo dalla merda che la camorra ci aveva buttato sopra: si era cercato di
legittimare la sua morte costruendo il sospetto di un suo possibile legame con
la malavita. Anche qui si parla di un’identità da ricostruire, anzi un’identità
da restituire alla verità. Riceverlo mi ha fatto pensare al forte senso che il
teatro ha ancora oggi nel sociale. Sono contento del valore che hanno legato a
questa realtà . Ma abbiamo avuto un riconoscimento anche da un’altra realtà
simile, il premio Teresa Pomodoro per il teatro dell’Inclusione che è sempre
legato all’impegno civile, al dar voce agli ultimi... ha una giuria niente
male: Ronconi, Barba…
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Ancora un altro monologo, un’anima sola che parla a
una comunità, accompagnato da una sedia.
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È un monologo
diverso. Volevo distaccarmi dai lavori precedenti rimanendo però in armonia con
le esigenze del mio scrivere: riportare nella scrittura le linee geometriche
della dittatura che imponeva una squadratura disumana alla vita degli
internati. Tonino è un personaggio puro ed è anche vero che lo accompagna
ancora una sedia, ma qui la sedia ha una funzione drammaturgica: è di ferro, ha
una grata come seduta e la grata richiama la prigione; ha le rotelle e sostiene
lo zoppicare di Tonino, lo sorregge, gli dà forza: ha una ragione nel suo
essere in scena, non è semplicemente il posto dove si siede il personaggio,
come invece era, per esempio, per Vittoria (si riferisce alla protagonista di Dissonorata, ndr). Anche le musiche sono più lavorate. È un
progetto che segna un’evoluzione. Tema nuovo, elementi nuovi. È vero che anche
qui grande importanza è affidata ai contenuti, ma questa è un’arma a doppio
taglio: spesso si confonde l’importanza dei temi trattati con l’importanza
dello spettacolo e si giustifica l’uno con l’altra, così che molti spettacoli
poco validi teatralmente sono, diciamo così, “fraintesi” nel loro valore per il
contenuto che invece merita attenzione. Il contenuto è importante ma il lavoro
si giudica attraverso la percezione e la percezione è forte solo se è teatrale,
al servizio di regole e contenuti.
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Anche qui sei partito da ricordi particolari,
difficili da custodire. Come autore tu cerchi storie, racconti, scavi nei
ricordi e a volte anche nei dolori.
Io
non cerco, ho una sorta di radar sempre acceso. Quando sento la necessità forte
di un argomento, la colgo. I miei personaggi sono popolari, lo capisci da come
parlano: l’immediatezza sulla scena mi viene da questo linguaggio di strada ma
anche dal lavoro che faccio su questo. Costruisco una struttura musicale nella
mia scrittura, cerco ritmo e armonia per rendere questo “idioma” efficace. È un
artificio che però non si deve sentire, e testo il mio lavoro leggendolo a
persone che parlano quel “linguaggio della strada” da cui sono partito e su cui
ho lavorato. Se arriva, se è seguito, allora il test è positivo. La forza del
dialetto è incontrastabile: ci sono pezzi che penso in italiano e non mi
suonano, poi li penso in dialetto e allora è tutto diverso, è tutto più forte
ma questo a teatro succede da sempre: pensiamo a Goldoni, a Ruccello, a De
Filippo. Poi in Italianesi la sfida è
superiore: scrivere un testo in italiano e costruirci sopra un accento che sia
capace di dare forza e potenza al parlato senza invaderlo.
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Definiscici La Ruina studente del D.A.M.S. di Bologna...
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Ma non solo
del D.A.M.S.. Sono diplomato alla
Galante-Garrone e il mio maestro è Leo De Berardinis: il mio primo lavoro da
attore è stato l’Amleto diretto da
lui.
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Ma il D.A.M.S. ha inciso anche sulla tua carriera da
professionista, o sbaglio?
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Sì, qualche anno
fa Gerardo Guccini (docente di drammaturgia al DAMS di Bologna, ndr) e Dario
Tommasello organizzarono in collaborazione con il Premio Riccione degli
incontri per gli studenti tra Bologna e Messina, incontri che avevano come tema
gli autori teatrali contemporanei. All’epoca mi ricordo che lessi quasi tre
quarti di Dissonorata. Nello stesso
periodo stavo pensando al soggetto di Italianesi, ne avevo un’idea.
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E poi?
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Ah sì, allora, in
quel periodo avevo tra le mani Italianesi
e lo proposi all’attenzione di Guccini. Mi disse: “Attenzione, questo
personaggio ha una bella anima, ma dopo quest’esperienza del campo deve avere
un’ala spezzata”. Sentire queste parole mi ha illuminato la parte buia di
Tonino, ho iniziato a lavorare sulla parte nera dei colori, sull’amarezza del
ritorno in Italia, sul dolore... sul suo essere zoppo. Guccini è per me un
monito, un orizzonte di riferimento.
-
Ultima richiesta: una voce, un pensiero sul tuo teatro
contemporaneo. Qualcosa da custodire gelosamente…
-
Oddio, è una
domanda a cui è pericoloso rispondere… Credo che sia importante per il teatro
contemporaneo ascoltare con il cuore. Certo, entra in gioco anche la ragione,
ma non bisogna essere troppo autoriflessivi. È importante che il mio lavoro non
lo capisca solo Franco Quadri, ma anche mia madre.
-
Non potevi dire cosa più bella. Grazie mille e buon
lavoro!
-
Grazie a voi... Ciao
gioia.
A caldo, chiuso il telefono,
la prima cosa che mi viene da pensare è come sia importante, nel raccogliere
voci dal teatro, il saper ascoltare. E questo è vero sia per chi il teatro lo
fa, sia per chi il teatro lo osserva, lo guarda, lo pensa... e lo racconta. O
almeno ci prova.
Elvira Scorza
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