Dopo aver esplorato call center e manicomi, Ascanio
Celestini approda in carcere, con Pro-Patria. Senza prigioni. Senza processi, per continuare la
riflessione sui meccanismi che presiedono alle istituzioni totalizzanti, figlie
di un sistema politico-sociale criminale che persegue, con ogni mezzo, l’omologazione
degli individui a un modello unitario ai fini di un più agevole controllo.
Con una vertiginosa intersezione
di piani temporali, il narr-attore mescola frammenti di Storia nazionale muovendosi
con disinvoltura tra Risorgimento, Resistenza partigiana e lotta armata degli anni
‘70. Una manipolazione dei fatti viziata da evidente incongruenza di collegamenti.
Ma Celestini non è uno storico, è un artista. E da uomo di teatro il nesso lo
trova sul piano drammaturgico.
I pezzi di Storia,
incastonati tra altri due livelli di scrittura (digressioni narrative e riferimenti
autobiografici), vengono chiamati in causa dal detenuto Celestini imprigionato
in quanto ladro di mele, come fonti cui attingere in maniera arbitraria per scrivere
un discorso in vista del proprio processo. Alla presenza di Giuseppe Mazzini, interlocutore
fittizio, e di altre figure evocate all’occorrenza, costruisce una teoria
secondo cui i tre momenti storici citati costituiscono esempi di come il
sistema carcerario sia, non un adeguato mezzo di garanzia della giustizia, ma lo
strumento di pubblica gestione prediletto dello Stato, un modo per reprimere
ogni tentativo di scollamento dal modello imposto dall’alto.
Una teoria in cui la
Storia è rovesciata e i protagonisti, strappati alla
dimensione mitica, sono ricondotti a quella umana. I monumenti diventano carne
e sangue. Anita Garibaldi è una “ragazzetta brasiliana venuta in Italia solo
per crepare”, Pisacane e Mameli due giovani che sognano di veder scorrere nel
fiume la testa dei nobili e che invece vedono scorrervi la propria. La Storia di governi diventa storia di persone,
di vite precipitate.
Tre storie di lotte
armate e di galera, dunque, che, al di là del giudizio di valore sulle istanze
di cui sono state portatrici, denunciano un sistema di governo fondato sull’esclusione,
sulla reclusione del non-allineato, piuttosto che sul tentativo di creazione di
una rete di assistenza che ne favorisca l’integrazione democratica. Un sistema
che ritagliando i rivoli male inquadrati di una società che pretende
simmetrica a ogni costo spezza gli
equilibri dinamici della vita reale determinando effetti talvolta disastrosi.
Ma, allora,
se lo Stato accusa Celestini di aver rubato una mela, Celestini accusa di
rimando lo Stato, colpevole di averlo costretto a quel gesto poiché incapace di
creare le condizioni che gli avrebbero consentito di non morire di fame
restando nella legalità. Per chi gestisce il potere, denuncia il narratore, è molto più facile neutralizzare con la
reclusione l'esempio vivente degli effetti della propria cattiva gestione che
interrogarsi sui propri errori e mettersi in discussione correndo il rischio di
crollare sotto il peso della propria autocritica.
“Dulce et decorum est pro patria mori”, ma
quale patria? Quella delle prigioni e dei processi? Quella di uno Stato che
giudica per non essere giudicato? Celestini ripudia a colpi di parole un
sistema che vuole trasformare l’Italia in un enorme tribunale. “Come se la
libertà fosse un premio e non un diritto”.
L’arringa finale è
pronta. Ma non serve più. Il processo si è già svolto nelle due ore di
spettacolo, di fronte a un pubblico chiamato al banco come giudice e come
imputato.
Rossella Menna
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