lunedì 2 aprile 2012

Pro-Patria: arringa finale di un ladro di mele

Una cella. Un ergastolano. Un corpo che rovescia fiumi di parole.
Dopo aver esplorato call center e manicomi, Ascanio Celestini approda in carcere, con Pro-Patria. Senza prigioni. Senza processi, per continuare la riflessione sui meccanismi che presiedono alle istituzioni totalizzanti, figlie di un sistema politico-sociale criminale che persegue, con ogni mezzo, l’omologazione degli individui a un modello unitario ai fini di un più agevole controllo.
Con una vertiginosa intersezione di piani temporali, il narr-attore mescola frammenti di Storia nazionale muovendosi con disinvoltura tra Risorgimento, Resistenza partigiana e lotta armata degli anni ‘70. Una manipolazione dei fatti viziata da evidente incongruenza di collegamenti. Ma Celestini non è uno storico, è un artista. E da uomo di teatro il nesso lo trova sul piano drammaturgico.


I pezzi di Storia, incastonati tra altri due livelli di scrittura (digressioni narrative e riferimenti autobiografici), vengono chiamati in causa dal detenuto Celestini imprigionato in quanto ladro di mele, come fonti cui attingere in maniera arbitraria per scrivere un discorso in vista del proprio processo. Alla presenza di Giuseppe Mazzini, interlocutore fittizio, e di altre figure evocate all’occorrenza, costruisce una teoria secondo cui i tre momenti storici citati costituiscono esempi di come il sistema carcerario sia, non un adeguato mezzo di garanzia della giustizia, ma lo strumento di pubblica gestione prediletto dello Stato, un modo per reprimere ogni tentativo di scollamento dal modello imposto dall’alto.
Una teoria in cui la Storia è rovesciata e i protagonisti, strappati alla dimensione mitica, sono ricondotti a quella umana. I monumenti diventano carne e sangue. Anita Garibaldi è una “ragazzetta brasiliana venuta in Italia solo per crepare”, Pisacane e Mameli due giovani che sognano di veder scorrere nel fiume la testa dei nobili e che invece vedono scorrervi la propria. La Storia di governi diventa storia di persone, di vite precipitate.

Tre storie di lotte armate e di galera, dunque, che, al di là del giudizio di valore sulle istanze di cui sono state portatrici, denunciano un sistema di governo fondato sull’esclusione, sulla reclusione del non-allineato, piuttosto che sul tentativo di creazione di una rete di assistenza che ne favorisca l’integrazione democratica. Un sistema che ritagliando i rivoli male inquadrati di una società che pretende simmetrica  a ogni costo spezza gli equilibri dinamici della vita reale determinando effetti talvolta disastrosi.

Con la metafora del furto di mele Celestini, infatti, smaschera tutta la forza controproducente  di uno Stato che trasforma dei ladri di mele (leggere clandestini, immigrati, tossicodipendenti) in criminali veri, in sovversivi, in ergastolani.

Ma, allora, se lo Stato accusa Celestini di aver rubato una mela, Celestini accusa di rimando lo Stato, colpevole di averlo costretto a quel gesto poiché incapace di creare le condizioni che gli avrebbero consentito di non morire di fame restando nella legalità. Per chi gestisce il potere, denuncia il narratore,  è molto più facile neutralizzare con la reclusione l'esempio vivente degli effetti della propria cattiva gestione che interrogarsi sui propri errori e mettersi in discussione correndo il rischio di crollare sotto il peso della propria autocritica.
“Dulce et decorum est pro patria mori”, ma quale patria? Quella delle prigioni e dei processi? Quella di uno Stato che giudica per non essere giudicato? Celestini ripudia a colpi di parole un sistema che vuole trasformare l’Italia in un enorme tribunale. “Come se la libertà fosse un premio e non un diritto”.

L’arringa finale è pronta. Ma non serve più. Il processo si è già svolto nelle due ore di spettacolo, di fronte a un pubblico chiamato al banco come giudice e come imputato.

Rossella Menna

Nessun commento:

Posta un commento