venerdì 27 aprile 2012

Antonio Latella, un “Don Giovanni” che infastidisce

Mentre si entra in teatro non si può fare a meno di canticchiare Mozart: il titolo dello spettacolo risuona nella pancia con la voce, profonda e spettrale, del Commendatore. Don Giovanni, a cenar teco è lo spettacolo che nasce come l'esito finale della collaborazione tra Antonio Latella, direttore durante la stagione 2010/2011 del Nuovo Teatro Nuovo, e Andrea De Rosa, allora direttore del  Mercadante, Teatro Stabile di Napoli.


La drammaturgia di Latella scritta a quattro mani con Linda Dalisi si articola come un romanzo di formazione. All’inizio si vede un piccolo Don Giovanni nella sua stanzetta con una piccola Donna Elvira mentre giocano con dei dinosauri di gomma che impersonificano i personaggi delle avventure del dissoluto punito. Donna Anna che viene insidiata durante la notte dall’uomo mascherato che cerca di possederla; il servo Leporello che sogna di diventare signore; il Commendatore, padre della sventurata che si batte per proteggere la figlia e Don Giovanni che uccide senza pietà il vecchio. Con questa trovata il prologo della storia è narrato. E fin dalle prime battutte il filo conduttore è ben delineato; Don Giovanni viene sempre richiamato all’ordine con un: “Giovanni, la cena è pronta!” I due bambini fanno naturalmente finta di non sentire ed è proprio a questo punto che la piccola Elvira strapperà a Giovanni la promessa di matrimonio.
Il regista mescola la musica di Mozart, i versi di Da Ponte e la drammaturgia di Molière. Testi e linguaggi diversi sono riuniti insieme per ri-creare un unico mito. Il Don Giovanni di Antonio Latella ha un po’ l’aria da misero: non è bello, non è seduttore, non è affatto palestrato; anzi è piuttosto anonimo e per i canoni di bellezza della nostra società passerebbe inosservato. Ma ha qualcosa per cui le donne si innamorano perdutamente di lui. È spietato e razionale, calcola tutto come un teorema, parla come un libro stampato, gioca con i sentimenti, pensa e costruisce geometrie di amori, ma soprattutto sfida la sorte e Dio. È un libertino senza vergogna e senza pudore.


Le donne, in questa versione, hanno un ruolo fondamentale. L’abbandono che vivono amaramente viene indagato e raccontato come in una commedia di Aristofane o come in una puntata di Sex and city; le sventurate si consolano a vicenda chi sedotte, chi tradite e chi abbandonate passano in rassegna tutti i vizi, tutte le colpe, tutte le deplorevoli azioni di Don Giovanni che però non possono non amare. Tutte - da Donna Elvira mancata suora alle puttane di un bordello - amano il dissoluto. Ed ecco che la regia interviene nuovamente con una trovata di alta sensibilità:  Maurizio Rippa, attore e contraltista, è strategicamente sempre in scena per cantare l’animo disperato delle donne, ora in disibilio per la passione, ora in profondo sconforto per la delusione. Il cantante non si riserverà di prestare la sua voce sia per arie mozartiane che per canzoni della Carrà.
Ma fondamentalmente il Don Giovanni di Latella è uno spettacolo che infastidisce. A partire dalle luci sparate in pieno viso sul pubblico che cerca di farsi ombra con il programma di sala. Per continuare con la scena del bordello troppo spinta per taluni che evidentemente non riescono a soffrire il bravissimo Giovanni Franzoni che interpreta Pierrot, un travestito in perizoma che ondeggia il suo culone in scena. Ma a quel punto dà fastidio qualunque cosa, anche la più banale discesa in platea da parte degli attori alla ricerca di un Commendatore. Ma già che ci sono, Latella e i suoi, prendono un po’ in giro gli spettatori paragonandoli a statue di pietra di un cimitero, immobili e per nulla partecipativi. Evidentemente per qualcuno è troppo: insulti, sconcerie e trasgressioni fanno fuggire a metà del secondo atto due vecchietti tra il mormorìo di chi resta e il crogiolìo degli attori.

Chi invece non convince sono proprio Don Giovanni, Daniele Fior e il suo servo Sganarello, Massimiliano Loizzi. Sbiechi e immaturi per il ruolo, nella versione vista al Teatro Testoni di Casalecchio di Reno, facevano fatica a ricordare le battutte a memoria per cui perdevano ritmo che altri dovevano poi recuperare.
Il finale è naturalmente un gran finale con tanto di colpo di scena. Don Giovanni non sarà trascinato all’inferno dalla Statua del Commendatore che in verità non compare mai, visto che è stato scelto uno spettatore che fa fatica a reggere lo sguardo degli attori figuriamoci ad alzarsi per andare sul palco. Sarà invece Donna Elvira a infliggere la condanna eterna e come una diabolica femmina gli promette mezza ala del castello, denari in quantità e tutta la libertà che ha sempre desiderato, l’unica cosa che vuole in cambio è che Don Giovanni si impegni a cenare con lei ogni sera. La trasformazione è immediata: il libertino dal giubbino di pelle passa a un abito di un polveroso settecento. Con la mano vecchia e tremante Don Giovanni finisce i suoi giorni mangiando un triste brodino di coriandoli.

Josella Calantropo

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