lunedì 12 novembre 2012

Reality: la storia di una superstite del quotidiano


Vivere e dimenticare. Dimenticare e riafferrare le briglie di un destino annullato, per portare  alla luce una teatralità casereccia, tessuta in casa, tra una poltrona e un tavolo da pranzo.
Ingombranti riflettori in scena mettono in luce la storia vera di una superstite del quotidiano, vissuta in casa per una vita intera; tavolino, poltrona e sedie per raccontare le sorti di una donna che muore per strada di infarto, in un non lontano anno duemila.
Comincia da qui il racconto delle vicende di Janina Turek, casalinga croata, che ha annotato minuziosamente i dati della sua vita, dagli incontri casuali ai pasti giornalieri. Una vita registrata in 738 diari. Cinquant’anni di vissuto nella Polonia assediata, durante tutto il Novecento.
Il silenzio di una vita abitata tra le righe di un quadernetto, portato in scena ai Teatri di Vita sabato 10 novembre.
Con una giacchetta blu, la gonna a fiori stile anni Quaranta lei e un completo sportivo d’oggi lui, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si alternano il testimone per teatralizzare l’esistenza enigmatica di una donna e le sue abitudini, emerse per ragionamenti, incroci di intuizioni e date, fatti accaduti e appuntati, catalogati, nascosti e ritrovati dalla figlia solo dopo la morte della donna. Un curioso caso che ha trovato notorietà postuma grazie al giornalista russo Mariusz Szczygiel che l'ha descritta con passione nel libro che dà il nome allo spettacolo: Reality.
I due attori si accostano alla verità per raccontarla dall’esterno senza giudicare, si calano nella parte senza pretesa di verisimiglianza: mostrare la realtà con la finzione. Un’immedesimazione che li porta a immaginare cosa pensava poco prima di morire, come era caduta a terra, cosa portava nel sacchetto della spesa e se qualcuno si fosse fermato quando l’hanno vista sull’asfalto accasciata.
Gli oggetti in scena, dalla tazza di vetro ai fiori in plastica, sono posizionati e accantonati per ri-costruire il quotidiano: ancora una volta la finzione per raccontare una verità.
Si legge di una donna incinta, un marito in carcere, e la fulminante idea – venuta davanti lo zerbino di casa - di scrivere un diario.
2 gennaio 1956: caffè a Cracovia; 14 dicembre 1976: riscaldamento nella Chiesa di Cracovia; 16 settembre 1957: prima colazione senza il marito, se n’è andato.
Si srotolano le date di una vita, condivisa dallo spettatore che quasi sente addosso la polacchità, favorita agli occhi dal biondo-Deflorian e i tratti somatici che rievocano il sapore dell’est Europa.
Janina invecchia, la gobba, le mani rosicchiate. Diminuiscono le persone che incontra, aumentano l’elenco dei programmi tv visti, le cartoline che si auto-invia.
“Vivo o faccio finta di vivere?” – scrive una volta.
Perché Janina Turek annota una vita intera? Potrebbe essere l’urlo di solitudine della donna? Perché nasconderlo?
“Sentirsi come in una danza balinese ballata con una maschera, nascosta dietro a un telo. Cosa è visibile?”.

Angela Sciavilla

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