Vivere e dimenticare. Dimenticare e riafferrare le briglie
di un destino annullato, per portare
alla luce una teatralità casereccia,
tessuta in casa, tra una poltrona e un tavolo da pranzo.
Ingombranti riflettori in scena mettono in luce la storia
vera di una superstite del quotidiano, vissuta in casa per una vita intera;
tavolino, poltrona e sedie per raccontare le sorti di una donna che muore per
strada di infarto, in un non lontano anno duemila.
Comincia da qui il racconto delle vicende di Janina Turek, casalinga croata, che ha
annotato minuziosamente i dati della sua vita, dagli incontri casuali ai pasti
giornalieri. Una vita registrata in 738 diari. Cinquant’anni di vissuto nella
Polonia assediata, durante tutto il Novecento.
Il silenzio di una vita abitata tra le righe di un
quadernetto, portato in scena ai Teatri
di Vita sabato 10 novembre.
Con una giacchetta
blu, la gonna a fiori stile anni Quaranta lei e un completo sportivo d’oggi lui, Daria Deflorian e
Antonio Tagliarini si alternano il testimone per teatralizzare l’esistenza
enigmatica di una donna e le sue abitudini, emerse per ragionamenti, incroci di
intuizioni e date, fatti accaduti e appuntati, catalogati, nascosti e ritrovati
dalla figlia solo dopo la morte della donna. Un curioso caso che ha
trovato notorietà postuma grazie al giornalista russo Mariusz Szczygiel che
l'ha descritta con passione nel libro che dà il nome allo spettacolo: Reality.
I due attori si accostano alla verità per raccontarla
dall’esterno senza giudicare, si calano nella parte senza pretesa di
verisimiglianza: mostrare la realtà con
la finzione. Un’immedesimazione che li porta a immaginare cosa pensava poco
prima di morire, come era caduta a terra, cosa portava nel sacchetto della
spesa e se qualcuno si fosse fermato quando l’hanno vista sull’asfalto accasciata.
Gli oggetti in scena, dalla tazza di vetro ai fiori in
plastica, sono posizionati e accantonati per ri-costruire il quotidiano: ancora una volta la finzione per
raccontare una verità.
Si legge di una donna incinta, un marito in carcere, e la
fulminante idea – venuta davanti lo zerbino di casa - di scrivere un diario.
2 gennaio 1956: caffè a Cracovia; 14 dicembre 1976:
riscaldamento nella Chiesa di Cracovia; 16 settembre 1957: prima colazione
senza il marito, se n’è andato.
Si srotolano le date di una vita, condivisa dallo spettatore
che quasi sente addosso la polacchità, favorita
agli occhi dal biondo-Deflorian e i
tratti somatici che rievocano il sapore dell’est Europa.
Janina invecchia, la gobba, le mani rosicchiate.
Diminuiscono le persone che incontra, aumentano l’elenco dei programmi tv
visti, le cartoline che si auto-invia.
“Vivo o faccio finta di vivere?” – scrive una volta.
Perché Janina Turek
annota una vita intera? Potrebbe essere l’urlo di solitudine della donna?
Perché nasconderlo?
“Sentirsi come
in una danza balinese ballata con una maschera, nascosta dietro a un telo. Cosa
è visibile?”.
Angela Sciavilla
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