L’immaginazione crea la realtà e permette di colmare lacune:
riempire una stanza vuota di oggetti, far diventare un adulto bambino, creare
suoni, emozioni e ambienti. Il teatro è un’arte che gioca molto con la fantasia
e incita a superare quei limiti che possono diventare risorse di esplorazione
fantastica.
Questo è l’assunto alla base dello spettacolo Hamelin,
portato in scena dalla compagnia de Gli Incauti al DOM la cupola del Pilastro
nell’ambito della rassegna CODA – teatri
del presente.
Lo spettatore entrando in teatro si trova davanti a un
proscenio vuoto. I posti sono disposti, come un abbraccio, sui tre lati della
messa in scena. Quando ormai tutti sono seduti, dalle quinte entra, trafelata,
una compagnia di attori con quattro casse e un appendiabiti con alcuni
indumenti. Così inizia lo spettacolo: poche cose, essenziali, che verranno
arricchite dalla bravura degli attori in scena e dalla fantasia degli astanti,
continuamente stimolata a vedere oltre ciò che appare, in tutti i sensi.
Si ha l’impressione di trovarsi, più che davanti a uno
spettacolo, all’interno delle prove di una compagnia. L’escamotage metateatrale
permette di entrare in una doppia dimensione portando alla luce un personaggio
inconsueto che nell’opera di Juan Mayorga, da cui è tratta questa pièce, viene
definito l’Acotador – in italiano Didascalista – che significa non solo “colui
che spiega”, ma anche “colui che delimita”. Ed è proprio questo il compito del
regista-didascalista: dare dei confini all’azione in scena e consegnare allo
spettatore degli elementi, immaginifici e di contesto che suggeriscano delle
chiavi di lettura e degli spunti per riflettere.
Anche il titolo non è casuale: Hamelin, infatti, richiama alla mente la
favola del pifferaio magico, riletta in chiave contemporanea da Mayorga che
intende raccontare la storia di una “città che non ama i suoi bambini”. Assunto
indispensabile per immergersi all’interno delle dinamiche messe in scena dove
troviamo un giudice che deve affrontare un caso molto delicato di pedofilia.
Protagonisti di questa vicenda sono un bambino di dieci anni e la sua famiglia
– un nucleo numeroso e con scarse risorse economiche – il presunto usurpatore,
il giudice – costretto anche lui a fare i conti con suo figlio e sua moglie –
e, infine, una psicologa pedagoga che analizza il bambino come un “caso
clinico” piuttosto che come “persona” con le sue mille sfaccettature: evidente
una critica al pensiero psicologico che tende a incasellare gli esseri umani
all’interno di tipologie prefissate di comportamento perdendo, alcune volte, di
vista la peculiarità di ogni singolo individuo.
L’argomento potrebbe sembrare anche troppo facile data la
carica emotiva che questo tipo di situazioni mette in moto a livello umano, e
il rischio potrebbe essere quello di facili categorizzazioni da becera tv
pomeridiana, pronta a sbattere il “mostro” in prima pagina.
Ma la compagnia degli Incauti non intende cadere in questa
trappola e, anzi, vuole dimostrare come un argomento così forte può essere
destrutturato e ricco di sfumature. Bene e male, ragione e colpa, amore e
scandalo sono concetti di cui ogni giorno ci nutriamo per delimitare il mondo,
per avere certezze. Avere qualcuno da accusare fa stare meglio, aiuta a
ripulirsi le coscienze e a ordinare il caos di cui, in realtà, è fatta la vita.
In questo spettacolo però, man mano che l’azione si svolge e gli eventi si
ramificano, ci si rende conto che i convincimenti pian piano svaniscono, la
verità si fa imprecisa, i contorni sfumano e tu, spettatore che all’inizio hai
la tendenza a voler delimitare, il desiderio, quasi inconscio, di trovare un
colpevole e un innocente, cominci a porti altre domande e ad avere sempre più
dubbi. Impossibile trovare risposte univoche, stabilire cosa sia giusto e
sbagliato. In questa pièce – capace anche di affrontare un tema di grande
attualità come quello delle case-famiglia – viene evidenziata la precarietà del
concetto di “verità”, e la difficoltà di circoscrivere e comprendere la
complessità della natura umana. Nemmeno il linguaggio sarà in grado di dare
delle certezze, anzi, il didascalistica dirà che «questa è un’opera che parla
del linguaggio, di come si forma e di come si ammala», portando alla luce un
altro concetto attualissimo: l’uso del linguaggio da parte dei media e i danni
che questo può provocare quando è usato nel modo sbagliato.
Amelia Di Pietro
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