mercoledì 5 dicembre 2012

L’omosessuale mutilato di Copi


Oltre il sipario, quello dell’incomunicabilità, c’è altro rispetto a noi. La differenza è un tabù. La diffidenza di un uomo scuro sul palco ci intimorisce. La difficoltà a esprimersi di quest’ultimo rende l’aria pesante. Quello sguardo da deus ex machina affetta l’aria. Il pregiudizio si esprime a sguardi. Una scena spoglia. Luci accese. Da una porta aperta si affaccia un albero che segna il tempo con il cadere delle foglie. Il freddo della Siberia entra e raggela le ossa.  Improvvisamente l’aria si fa volubile. Soffia il cielo. Suona “Mèlocoton” di Colette Magny che scandisce il non-tempo e guida i personaggi in un andirivieni ossessivo compulsivo. Trascinano strascicanti un telo bianco come fosse la steppa siberiana: Irina, la figlia, e Mme Simpson, la madre. Sistemano teli e secchielli. Si sdraiano e fingono di prendere il sole. “J’en sais rien; viens, donne-moi la main”. Si afferrano per mano seguendo alla lettera ciò che dice la canzone. E allora, “Non lo so, vieni, dammi la tua mano”.

L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi, commedia tragica di Copi  riletta da Andrea Adriatico per Teatri di Vita. Deformazione e parodia di una realtà, quella di Copi, che rispecchia tuttavia la nostra di oggi. Irina, nella realtà Anna Amadori, e Mme Simpson, la Madre ovvero Olga Durano, immaginano il mare. Finto, non solo quello. Giocano sui loro sessi operati, confondono chi ascolta e mentono spudoratamente.  Si alternano cambi di sesso volontari e obbligati. A completare il trittico la signora Garbo, interpretata da una camaleontica Eva Robin’s, avvenente insegnante di pianoforte. Una transgender dai due sessi strizzati in costume adamitico. Corpo di donna e sesso di uomo. “Ci sono delle circostanze e lei, signora Simpson, lo sa meglio di me, in cui non si può fare a meno di essere sinceri” è la signora Garbo che si dichiara a Irina. Ma, l’apparente sincerità si nasconde dietro una immancabile bugia. C’è sempre quel gioco tremendo del detto, un attimo prima, e negato, subito dopo. Dire e non dire, avere voglia di andare e non muoversi. Irina è una vittima contesa tra le attenzioni  disturbate della madre e del maestro di pianoforte, entrambi con un “pene assolutamente autentico”. Una non storia, uno scherzo del destino. Uomo e donna si nasce e si diventa. L’orientamento sessuale non ha categorie. Irina nasconde un’anima virile in un involucro femminile. Possiede una borsetta, simbolo della vagina, di cui smarrisce catena e lucchetto. Mme Simpson e la signora Garbo, figure genitoriali atipiche, gestiscono con la figlia un rapporto di cure e premure, tipicamente materno, con un’attenzione sessuale incestuosa. Di certo non è amore incondizionato. Adriatico gioca con i fuori campo e sfrutta lo spazio scenico in tutte le sue dimensioni: il dentro e fuori, il sopra e sotto, la platea e i ballatoi dei macchinisti.

Siberia, luogo di aborto e confessioni, dove “la difficoltà a esprimersi ha l’immagine atroce delle mutilazioni: fisiche, umane e sociali”. Siberia è la terra che dorme. La steppa siberiana è minacciata dai lupi, simboli del vigore maschile. Copi si diverte a cancellare le identità virili. Lo Zio Pierre e il dottor Feydeau sono fantomatici fantasmi, presenze di assenze. Il generale Puškin e l’ufficiale Garbenko vengono castrati del pene per peni ben più grandi. La sofisticata signora Garbo propone di fuggire in Cina, luogo contrapposto alla Siberia e patria della verità. Irina e la madre dormono, bevono il Mirabel, ruttano, si puliscono denti e lingua, scappano, si tengono per mano, confessano i loro segreti più intimi e autolesionisti. Come burattini intrappolati in una capanna. Ricordano vagamente i Didi e Gogo di “Aspettando Godot”. Per questi ultimi non esiste un “altrove” al di là delle quinte. Per Irina, la madre, la signora Garbo, il generale Puškin e l’ufficiale Garbenko  è pensato un “altrove”  ma, per loro singolare scelta, non si allontanano mai dai quaranta gradi sotto zero come attratti da una forza centripeta esercitata da quell’albero. La capanna è rifugio dall’assedio dei  lupi, da quel “fuori” che inquieta. Il rifugio si trasforma in lager e si manifesta una logica spietata: il “dentro” protegge diventando pure luogo di follia e perdizione. “Fuori” e “dentro” si consumano a vicenda.
Irina e i due amanti-genitori sono vittime di Edipo. Madre è una madre fallica che non ha chiarito a Irina il tabù dell’incesto. Irina si ciuccia il dito, sintomo di un narcisismo primario. Mente senza pudore come intrappolata nel “circolo vizioso delle bugie”. Suona il pianoforte e si rompe il mignolo, cade dalle scale e si rompe una gamba, è incinta e caga il feto in un secchiello da mare, tiene un topo in gabbia per poi infilarlo nell’ano. Soggetto represso sessualmente e oggetto delle critiche della madre. Portatrice sana di sadomasochismo che la fa regredire allo stadio anale. Irina soffre di una sessualità disturbata. Dice bugie allo scopo di ricevere attenzioni e punizioni. Ottiene solo un interrogatorio e cure opprimenti che castrano la sua virilità. Irina si taglia la lingua: forma di protesta di un cervello pensante, di una voce sincopata e di un sesso operato. Sanguina e sviene. Di Irina rimane solo un corpo mutilato, un martire di guerra. Dall’alto piovono come missili finocchi da insalata. I personaggi si accasciano per terra. L’uomo nero li avvolge con il telo bianco. La guerra è finita. Immobili. Luci soffuse.
Qual è la verità di questo inganno? Sullo sfondo musicale di un Modugno rassegnato, Adriatico sembra citare il Pasolini nel drammatico “Otello”. "Perché dobbiamo essere così diversi da come ci crediamo?" è la domanda di Otello alla quale risponde, nelle vesti di Jago, un Totò dalla faccia verde: "Noi siamo in un sogno dentro un sogno". Un sogno rosa, dove tutto è rosa. Dove non si muore a quindici anni per pregiudizio. Dove essere diverso non è una colpa. Un sogno è quella verità che si sente dentro ma non bisogna nominarla perché, se lo si fa, svanisce.
                                                                                                         Angela Grasso

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