Oltre il sipario,
quello dell’incomunicabilità, c’è altro rispetto a noi. La differenza è un
tabù. La diffidenza di un uomo scuro sul palco ci intimorisce. La difficoltà a
esprimersi di quest’ultimo rende l’aria pesante. Quello sguardo da deus ex machina affetta l’aria. Il
pregiudizio si esprime a sguardi. Una scena spoglia. Luci accese. Da una porta
aperta si affaccia un albero che segna il tempo con il cadere delle foglie. Il
freddo della Siberia entra e raggela le ossa.
Improvvisamente l’aria si fa volubile. Soffia il cielo. Suona
“Mèlocoton” di Colette Magny che scandisce il non-tempo e guida i personaggi in
un andirivieni ossessivo compulsivo. Trascinano strascicanti un telo bianco
come fosse la steppa siberiana: Irina, la figlia, e Mme Simpson, la madre.
Sistemano teli e secchielli. Si sdraiano e fingono di prendere il sole. “J’en sais rien; viens, donne-moi la main”. Si
afferrano per mano seguendo alla lettera ciò che dice la canzone. E allora,
“Non lo so, vieni, dammi la tua mano”.
L’omosessuale
o la difficoltà di esprimersi, commedia tragica di
Copi riletta da Andrea Adriatico per Teatri di Vita. Deformazione e parodia
di una realtà, quella di Copi, che rispecchia tuttavia la nostra di oggi.
Irina, nella realtà Anna Amadori, e Mme Simpson, la Madre ovvero Olga Durano,
immaginano il mare. Finto, non solo quello. Giocano sui loro sessi operati,
confondono chi ascolta e mentono spudoratamente. Si alternano cambi di sesso volontari e
obbligati. A completare il trittico la signora Garbo, interpretata da una
camaleontica Eva Robin’s, avvenente insegnante di pianoforte. Una transgender
dai due sessi strizzati in costume adamitico. Corpo di donna e sesso di uomo.
“Ci sono delle circostanze e lei, signora Simpson, lo sa meglio di me, in cui
non si può fare a meno di essere sinceri” è la signora Garbo che si dichiara a
Irina. Ma, l’apparente sincerità si nasconde dietro una immancabile bugia. C’è
sempre quel gioco tremendo del detto, un attimo prima, e negato, subito dopo.
Dire e non dire, avere voglia di andare e non muoversi. Irina è una vittima
contesa tra le attenzioni disturbate
della madre e del maestro di pianoforte, entrambi con un “pene assolutamente
autentico”. Una non storia, uno scherzo del destino. Uomo e donna si nasce e si
diventa. L’orientamento sessuale non ha categorie. Irina nasconde un’anima
virile in un involucro femminile. Possiede una borsetta, simbolo della vagina,
di cui smarrisce catena e lucchetto. Mme Simpson e la signora Garbo, figure
genitoriali atipiche, gestiscono con la figlia un rapporto di cure e premure,
tipicamente materno, con un’attenzione sessuale incestuosa. Di certo non è
amore incondizionato. Adriatico gioca con i fuori campo e sfrutta lo spazio
scenico in tutte le sue dimensioni: il dentro e fuori, il sopra e sotto, la
platea e i ballatoi dei macchinisti.
Siberia, luogo di
aborto e confessioni, dove “la difficoltà a esprimersi ha l’immagine atroce
delle mutilazioni: fisiche, umane e sociali”. Siberia è la terra che dorme. La
steppa siberiana è minacciata dai lupi, simboli del vigore maschile. Copi si
diverte a cancellare le identità virili. Lo Zio Pierre e il dottor Feydeau sono
fantomatici fantasmi, presenze di assenze. Il generale Puškin e l’ufficiale
Garbenko vengono castrati del pene per peni ben più grandi. La sofisticata
signora Garbo propone di fuggire in Cina, luogo contrapposto alla Siberia e
patria della verità. Irina e la madre dormono, bevono il Mirabel, ruttano, si
puliscono denti e lingua, scappano, si tengono per mano, confessano i loro segreti
più intimi e autolesionisti. Come burattini intrappolati in una capanna.
Ricordano vagamente i Didi e Gogo di “Aspettando Godot”. Per questi ultimi non
esiste un “altrove” al di là delle quinte. Per Irina, la madre, la signora
Garbo, il generale Puškin e l’ufficiale Garbenko è pensato un “altrove” ma, per loro singolare scelta, non si
allontanano mai dai quaranta gradi sotto zero come attratti da una forza
centripeta esercitata da quell’albero. La capanna è rifugio dall’assedio
dei lupi, da quel “fuori” che inquieta.
Il rifugio si trasforma in lager e si manifesta una logica spietata: il
“dentro” protegge diventando pure luogo di follia e perdizione. “Fuori” e
“dentro” si consumano a vicenda.
Irina e i due
amanti-genitori sono vittime di Edipo. Madre è una madre fallica che non ha
chiarito a Irina il tabù dell’incesto. Irina si ciuccia il dito, sintomo di un
narcisismo primario. Mente senza pudore come intrappolata nel “circolo vizioso
delle bugie”. Suona il pianoforte e si rompe il mignolo, cade dalle scale e si
rompe una gamba, è incinta e caga il
feto in un secchiello da mare, tiene un topo in gabbia per poi infilarlo
nell’ano. Soggetto represso sessualmente e oggetto delle critiche della madre.
Portatrice sana di sadomasochismo che la fa regredire allo stadio anale. Irina
soffre di una sessualità disturbata. Dice bugie allo scopo di ricevere
attenzioni e punizioni. Ottiene solo un interrogatorio e cure opprimenti che
castrano la sua virilità. Irina si taglia la lingua: forma di protesta di un cervello
pensante, di una voce sincopata e di un sesso operato. Sanguina e sviene. Di
Irina rimane solo un corpo mutilato, un martire di guerra. Dall’alto piovono
come missili finocchi da insalata. I personaggi si accasciano per terra. L’uomo
nero li avvolge con il telo bianco. La guerra è finita. Immobili. Luci soffuse.
Qual è la verità di
questo inganno? Sullo sfondo musicale di un Modugno rassegnato, Adriatico
sembra citare il Pasolini nel drammatico “Otello”. "Perché dobbiamo essere
così diversi da come ci crediamo?" è la domanda di Otello alla quale
risponde, nelle vesti di Jago, un Totò dalla faccia verde: "Noi siamo in
un sogno dentro un sogno". Un sogno rosa, dove tutto è rosa. Dove non si
muore a quindici anni per pregiudizio. Dove essere diverso non è una colpa. Un
sogno è quella verità che si sente dentro ma non bisogna nominarla perché, se
lo si fa, svanisce.
Angela Grasso
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