Una nenia
famigliare, il gorgoglio del tempo passato a cercare le parole giuste per
ricordare, in quell'impasto dialettale che suggella l'intimità del raccontare e
la continua ricerca di una lingua madre, di una patria da servire, di un padre
cui chiedere il perché di quest'identità negata, di questa diversità
condannata.
Eccolo qui Tonino, il sarto zoppo che sussurra a mezza voce la sua
storia che poi tanto sua non dovrebbe essere: eccolo qui Saverio La Ruina, drammaturgo,
regista teatrale e protagonista nel
suo monologare, a tu per tu con una sedia che oramai lo accompagna nel suo
viaggio tra i dimenticati, gli ignorati, eroi lasciati soli da una comunità che
non li vuole, li bolla come diversi, sconfitti, e per questo li costringe a
vagare nell'eterna solitudine del raccontare per raccontarsi, per ritrovarsi.
Parole strozzate in gola, un “malinconia” detto a fior di labbra capace di
commuovere il pubblico di Teatri di Vita
che ha scelto di passare il fine settimana con Italianesi, ha scelto di
lasciarsi tarlare nell'ignoranza da questi settantacinque minuti densi di vita
vissuta: nato nei campi di prigionia albanesi da padre italiano mai conosciuto,
costretto a vivere internato per quarant'anni, Tonino sopravvive alle torture e
alle vessazioni psicologiche grazie alla capacità di immaginare la vita. Assiduo
credente nel mito del paese “più bello del mondo”: è una dote naturale, la sua,
che lo porta a cucire insieme attimi felici con i quali riesce a costruirsi un
mondo parallelo fatto di colori vivaci, di tinte forti, capaci di cancellare
dai suoi occhi il fango del campo, la disperazione dei suoi simili. Ha un unico
credo, Tonino: la patria da rivedere, il padre da ritrovare, l'identità da
suggellare e quando finalmente arriva un indirizzo a cui poter chiedere il
premio per la forza con la quale, nonostante tutto, ha vissuto, ha amato, ha
riso e ha pianto, ecco che l'eroe lauriniano
riprova la sua solitudine, la sua non appartenenza alla società: accompagnato
dal piccolo Leoncino la sua ricerca si scolla davanti alla freddezza di un
padre Dimentico, di una madre Patria che non riconosce i suoi figli, di una
realtà che tradisce i sogni e ti priva della capacità di dare colore alla vita.
Torna in Albania, Tonino, e ci torna da credente ateizzato: ha pianto lacrime
di gioia nel provare la libertà di poter “stare”, termine suggellato dal
dialetto calabrese per indicare l'ineguagliabile felicità dell'assistere senza
regole né limiti al fluire degli attimi, eterni o fuggevoli che siano; ma nel
suo stare al mondo non riesce a dire in che parte del mondo sta la sua
identità. Questo Tonino non lo sa vivere, non lo sa perdonare. Da albanese è
sopravvissuto alla prigionia e alla solitudine del diverso, da italiano ha
sperimentato la dimenticanza e l'indifferenza per chi è tornato: non gli resta
che difendere la bellezza dei ricordi, il candore dello sguardo diretto verso
le altre coste, i momenti di purificazione dal “grigio e verde di questo campo
[…] dal grigio e verde della merda”. Non gli resta che tornare dietro il filo
spinato della credenza fanciullesca, del mito che tutto giustifica.
Ma alla
fine si recupera la libertà anche dai sogni, dalle illusioni infantili: si
sorvola sul dolore e si torna indietro, per perdonare chi ha dimenticato. O
almeno ci si mette in viaggio per provare a farlo.
“Non c'è cosa più bella che essere
italiani”. Davanti al tricolore si spegne la storia di Tonino ma si accende
l'attenzione sull'oblio. Da non dimenticare.
Elvira Scorza
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