Il fascino della regia poliedrica di Thomas Ostermeier si dispiega, come in suoi lavori precedenti, ancora una volta in un gioco di netti contrasti. Contrasto in una scena che appare allo stesso tempo ruvidamente spoglia e dissacrata più volte nel corso dello spettacolo da acqua, birra, un water smagliante in cui la protagonista rigetta e poi defeca, fino alla minzione del partner-spalla, ma anche raffinata nella sua tecnologia: tralasciando lo scassato box del videogioco anni novanta in fondo scena, risaltano i microfoni, lo specchio da camerino di diva, gli screen (stile Craig?) che inizialmente rappresentano un campo, ma poi si aprono a filmati quasi lynchiani (penso alla strada nella notte, inquietante overture di Mulholland Drive). Mirabolante per quanto riguarda la tecnologia e il richiamo cinematografico, l’apertura dello spettacolo sul dialogo-confessione davanti allo specchio, ripreso in maxi-schermo, destruttura tutto il discorso e lo rende falso. Non è un caso per altro che l’uomo diventi prete semplicemente indossando il collarino bianco: si svuota così tutta la sacralità della confessione.
E di nuovo il testo viene messo in crisi nella fase di passaggio adolescenziale di Susanne, attraverso la recitazione in unisono dei due attori, in un rimbombo e distorsione del suono-video davvero suggestivi. Un altro contrasto, netto, si può certo sottolineare tra la parte preponderante di Susanne, una bravissima Brigitte Hobmeier, che si adatta con notevole trasformismo ai rapidi cambi d’età (eccezionale fino al grottesco la restituzione della senilità finale), e invece il ruolo di Edmund Telgenkämper, che restituisce con abile naturalezza e voluto sottotono vari personaggi quasi fossero semplici proiezioni e fantasmi di Susanne. Gli attori eccezionali, il testo di Herbert Achternbusch forte, dagli echi ibseniani (il che spiega la scelta di Ostermeier, basti pensare al suo precedente Edda Gabler): l’ora e mezzo di spettacolo in tedesco con sottotitoli è filata come ci si aspetta dagli spettacoli più emozionanti.
Tirando le somme, il gioco di Ostermeier è vivo, certo, e molto rispetto a certo teatro nostrano, ma se pensiamo ad altre sue regie non sfonda, o forse sfonda troppo: il sovraccarico di percezioni ai sensi, dal cibo offerto inizialmente al pubblico, al pesante puzzo di fumo, anche se certo riprende il testo (“Tu ti nascondi dietro al fumo” dice Susanne al marito), i video e i sottotitoli, purtroppo a tratti poco funzionanti, non aiutano lo spettatore, e forse questo è voluto. O forse c’è una voglia di strafare, un eccesso non più giustificati dall’immagine diffusa di Ostermeier come giovane genio incompreso: volendo cercare il pelo nell’uovo, per riprendere il videogioco in scena, simbolo forse di una vita che si apre e chiude su se stessa ciclicamente (confessione da una parte, dall’altra chiesa sullo sfondo e cerini davanti allo specchio), su questo eccesso potremmo anche siglare un game over.
Susn, regia di Thomas Ostermeier 18 febbraio di Teatri di Vita (Bologna).
Fabio Raffo
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