Il sipario non è ancora aperto quando una voce fuori campo pronuncia un conto alla rovescia, sulla falsariga di quello della NASA. Nel buio che regna sovrano sul palcoscenico ci sono cinque sfere di lattice bianco che, roteando su se stesse e illuminandosi dall’interno sotto forma pseudo-oculare, prendono vita, come fossero cellule. Corpi umani festeggiano la loro «nascita» saltando, balzando qua e là per l’intero perimetro scenico, danzando singolarmente e in coppia per poi strisciare via dietro le quinte.
Subito dopo questo primo quadro coreografico un passo a due femminile risalta una netta distinzione corporea: una ballerina è bionda, l’altra mora; una muscolosa, l’altra esile; una più protesa verso il pavimento, l’altra verso l’aere circostante. Solo un elemento comune irrompe nella loro disparità, il costume color carne, che rende nitida l’immagine di un unico corpo, avvinghiato su se stesso attraverso una sinuosa danza contact.
A questo punto, cala sul proscenio un telo bianco (proprio come quello usato per i videoproiettori), accompagnato da una dolce musica di sottofondo, in cui domina il tintinnìo di mille campanellini, che catapultano il pubblico in un’atmosfera quasi fiabesca. Il gioco di ombre e d’immagini proiettate, difatti, conduce verso un magico universo arabeggiante, da medio e, persino, estremo orientale: nelle sagome dei corpi dei danzatori ritroviamo il tappeto volante di Aladdin, la divinità indiana Vishnu, la posizione del loto dello yoga. Il tema musicale, poi, sfuma verso lo scroscìo delle onde marine, a cui il visionario coreografo Anthony Heinl decide di affiancare l’immagine simulatoria di una nuotata in mare aperto a più di due metri d’altezza dal pavimento.
Le note della canzone Teardrop dei Massive Attack congedano il telo immaginifico, che ipnotizza il pubblico con l’immagine di un altoparlante multicolore su cui vanno a sovrapporsi le sagome moltiplicate di uomini e donne, posizionate su di un piccolo carrello scorrevole invisibile.
Il benvenuto in una nuova area di fantasia è affidato ad una ballerina che volteggia, rimbalza e gironzola per tutto il palcoscenico su di una struttura ad anello, molleggiante ed aculeata dalle fattezze vagamente simili a quelle d’un rovo rotolante del deserto.
Ne consegue lo scenario di una sorta di giungla fantasmagorica, dove vige palesemente la «legge del più forte»: un essere dalla forma indefinita, caricaturizzato da due occhi verdi e il corpo ricoperto di piccole sfere luminescenti, viene divorato dalla bocca di un’altra entità informe, che vaga per il palcoscenico smembrandosi e ricomponendosi a suo totale piacimento.
I due momenti coreografici successivi giocano sull’alternanza del bianco col nero: il primo è il passo a due tra una figura nera e un lenzuolo bianco che l’accompagna in ogni movimento e posa; il secondo è l’assolo di una donna nera fasciata da testa a piedi con bande elastiche bianche, che levita da terra finanche a volare e compiere vorticosissime giravolte a testa in giù.
Si chiude il primo tempo dello spettacolo con l’apparizione di quattro coniglietti, vestiti di colori sgargianti e fluorescenti ma, soprattutto, umanizzati nella mimica gestuale e coreografica, promotrice tanto d’innovazione quanto di tradizione: lo testimonia la ripresa del famoso passo a quattro dei piccoli cigni, tratto dal celebre balletto classico Il lago dei cigni.
Il vero protagonista di tutto il secondo tempo è un materasso nero che occupa tutta l’area scenica. Su di esso i danzatori hanno modo di dimostrare le loro qualità acrobatiche, dilazionate in quattro ulteriori composizioni coreografiche.
Nelle prime due cinque danzatori, come schegge impazzite, interagiscono attraverso un frenetico alternarsi di salti, capriole ed oscillazioni del corpo, memori della tecnica coreografica moderna di Martha Graham. Fa da sfondo a questo tipo di esibizione, dall’intenso sapore circense, tanto il buio pesto, su cui predominano le righe fluorescenti delle tute super-elasticizzate, quanto la luce più viva, espansa su tutto il boccascena, sotto la quale i ballerini mostrano le loro doti coreutiche rendendo spiritosissimo il contesto: indossano, infatti, dei costumi da bagno degli anni Trenta e ancheggiano coi passi tipici della Hula hawaiiana.
Ci si avvia, a questo punto, alla conclusione dello spettacolo con la ricomparsa sul proscenio del telo bianco, che questa volta svolge il ruolo di una «quarta parete», sui valori del mondo. La semplicità della Natura, l’autenticità dei sessi e le evanescenti sfumature del nostro io più profondo vengono letteralmente ritratte dai danzatori come sulla tela di un quadro, regalando così al pubblico la più grande magia che si possa desiderare: disegnare con la luce.
Visto all’EuropAuditorium di Bologna
Data: 8 febbraio 2013
Marco Argentina
favoloso!
RispondiEliminadescrizione molto tecnica di quello che è stato secondo il mio umile parere un momento di poesia e di metafora del stupendo regno animale.
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