di Josella Calantropo
“Quel che vorremmo mostrare è la
dinamica, il moto di vita che connette il nobile e il volgare, il grande e il
meschino, l’alto e il basso”.
Ecco
una dichiarazione di onestà. La presa di posizione di due autori che avrebbero
potuto scrivere l’ennesimo manuale sul Teatro e spettacolo nel primo ottocento
e invece hanno preferito mettere, dentro
ai fatti obiettivi, parte della loro vita. Due intellettuali che non si sono
elevati a ruolo di giudici, due storici che hanno guardato tra le pieghe del
vissuto. Due uomini di teatro che hanno detto un po’ di se stessi raccontando
di quella prima metà del XIX secolo per così tanti versi simile ad alcuni anni
della nostra storia recente. Claudio
Meldolesi e Ferdinando Taviani,
con questo volume, hanno vinto il Premio
Pirandello - Palermo 1993 per la saggistica.
Si
può provare a collocare questo libro in un ambito: potrebbe essere un manuale
didattico o un saggio o un punto di vista o un racconto. Si può tentare di dare
un’etichetta perché è sempre più semplice ragionare per strutture già ben costruite,
ma a ogni riga si viene smentiti. Ipotesi su ipotesi che crollano al seguitare
della lettura. A questo punto l’unica cosa da fare è fidarsi e affidarsi alle
parole. Parole ben scelte, sapientemente accostate e scrupolosamente ricercate.
Ci sono le parole-ritornello che ritornano come leitmotive. “Vuoto” per esempio: quello lasciato dalla morale e dalla religione dopo il 14 luglio 1789. Quel vuoto che hanno dovuto sopportare i giovani che avevano creduto negli ideali della rivoluzione. Oppure quel “vuoto legislativo” che allora come adesso coinvolge la vita teatrale. Il vuoto raccontato nelle Memorie di Talma: “chi ha posto le fondamenta del Louvre è grande (…) ma più grande ancora è chi ha scavato questa piazza, chi ha fatto questo vuoto”. Il teatro stesso viene definito da Taviani uno spazio « vuoto » cioè si “rivela come un luogo delle trasformazioni, o addirittura come una sorta di laboratorio spirituale (…) perché da esso può emergere sempre qualcosa di imprevisto, può affiorare un messaggio o una possibilità”.
Ci sono poi le parole-mondo che racchiudono interi concetti. Come “attori-creatori” ovvero la capacità degli attori e delle attrici di creare partiture gestuali tra gli interstizi dei testi messi in scena. Oppure “servitori-specializzati” che porta con sé il disprezzo dei padroni nei confronti del mestiere teatrale e l’umiliazione subita dagli artisti considerati niente di più che altri tipi di servi.
O ancora “miseria-comica” che ben racchiude il periodo storico e l’atteggiamento dei teatranti: il loro coraggio di viaggiare e la loro tenacia di sopravvivere adattandosi a “sorprendere”anche “con (…) povere attrazioni (…)cambiando continuamente piazza”.
La parola-mondo “architettonico-sociale” per indentificare la gerarchia delle classi sociali con “l’aveare dei palchi (…) il luogo della proprietà esibita”.
Il “teatro-psicolabile” per raccontarci dell’equilibrio precario e “infelice” nel primo ottocento tra il teatro ancora legato ai dettami classicisti, tra “i teatranti inquieti che agitavano passioni e tra la professione scenica che dava seguito alla sua routine”.
Ci sono infine le parole-simbolo come metafore poetiche. Una su tutte è “isola”. Filo conduttore dall’inizio alla fine del libro. Un viaggio da un’isola mentale, “il teatro come isola nella rinascente vecchiaia, negli anni della restaurazione”, a un’isola vera, la Sicilia, terra di “differenze”. “L’una e l’altra mostrano in diverso modo la particolare natura di un teatro che inventa la propria dignità e il proprio valore a partire da una condizione di miseria”. Ed è a questo che viene legato il tema della fuga, da e verso l’isola, la fuga “nel teatro possibile e dal teatro vigente”. Il teatro come rifugio, come luogo di resistenza clandestina. Il teatro come l’unica possibilità dei giovani di sfuggire alle costrizioni dei padri per andare incontro alla propria libertà.
Ma oltre alle date, ai documenti citati, alle teorie ben fondate, c’è dell’altro. C’è un livello che bisogna scorgere tra le righe, si respira un’aria che dice più di quanto è scritto. Si percepisce la forza di due giovani degli anni sessanta che come quelli del primo ottocento si sono sentiti traditi, abbandonati dagli ideali del cambiamento e che come loro si sono rifugiati nel teatro per dare ancora senso alla propria vita. Diverte l’idea di pensare che come Wilhelm Meister si sono ritrovati nel teatro per inseguire una ragazza, ma forse non è importante. Quel che conta è che come i giovani uomini di teatro del primo ottocento, anche Taviani e Meldolesi si sono messi in viaggio per raccontare un tratto di vita teatrale. Hanno accostato allo sguardo storico di ampio respiro i dettagli della vita reale. Hanno messo in questo libro il loro cuore spezzato dalla vita e risanato nel teatro. Forse per questo si fa fatica a definirlo. È stato venduto come un manuale - è vero - ma per essere letto, probabilmente,come un romanzo di formazione di due ragazzi di altri tempi.
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