domenica 3 giugno 2012

Un’astuta civettuola nella cerulea corte del Bey dall’Algeri

di Enrico RosolinoTrionfo del Rossini buffo al teatro Comunale di Bologna; e in arrivo un dvd dell’Opera in collaborazione con la Rai.

Con la rossiniana L’Italiana in Algeri l’ente lirico comunale bolognese vince un grandioso terno al lotto. Anche all’ultima replica, il 19 maggio 2012, platea, palchi e loggione sono gremiti. Dopo un addolorato, quanto debito ricordo di Melissa, la fanciulla vittima dello spaventoso attentato esplosivo avvenuto dinnanzi al liceo professionale Morvillo - Falcone di Brindisi a cui ha fatto seguito un lungo e commosso minuto di silenzio, la gentil opera di Rossini ha preso il la.


Teoricamente la bellezza di questo dramma giocoso in due atti su libretto di Angelo Anelli, rappresentato la prima volta a Venezia nel maggio del 1813, si dipana sinuosa già dalla scintillante e notissima ouverture in un cosmo splendente di arie, cavatine, duetti e terzetti singolarissimi nei temi ma soprattutto negli ironici doppi sensi. L’orchestrazione, affabilmente orientaleggiante nei fiati e nelle percussioni, ricompone le fila del fare occidentale con un gioco tipicamente settecentesco d’archi, incisivi anche quando lievemente patetici. Il cembalo si diletta nell’accompagnare i recitativi secchi, questi ultimi, ponti argutissimi di congiunzione tra uno sberleffo e un momento semiserio. Codesto lavoro di Rossini, e lo si comprende già da queste poche annotazioni tecniche, val di per sé un ovazione. Se però questi intelligenti schemi ed orientamenti musicali vengono accompagnati, come in questo caso, da ottimi interpreti di solida formazione nel repertorio rossiniano, “strampalati” riuscitissimi movimenti di scena (figli di un attenta e consapevole regia) e mirabili costumi, scenografie e luci, ebbene, si potrà dire che si è assistito ad una straordinaria opera nell’opera.


Il pubblico ha goduto nel lasciarsi deliziare dal tenore d’origine cinese Yijie Shi nel ruolo dell’italiano Lindoro- prigioniero e schiavo del Bey d’Algeri -. Questi ha dato sfoggio di una vocalità controllata e limpida - quasi fosse quella di un adolescente dalla voce bianca - e di una perfetta dizione protrattasi e negli acuti e nei sapienti sottovoce. Una voce maschile la sua vellutata e giovanile perfettamente aderente al ruolo del giovane innamorato che deve ammaliare cantando la nota, attesissima cavatina“Languir per una bella”.


La mezzo soprano Marianna Pizzolato, dal canto suo, è stata un’ Isabella di impeccabile perizia tecnica: con il suo protendere il collo verso l’alto onde dar aria alle note e alle corde vocali ella è riuscita a infondere intorno chiarissime e meticolose infiorettature oltreché puntuali pronunce di ogni singolo importantissimo verso cantato e non. La si è ammirata quale maliziosa, corpulenta e avvenentissima gatta morta, quasi una Marina la Rosa del settecento, miagolare fascinosamente al Bey ormai inebetito, e si goduto nel vederla sgambettare leggiadra e leziosa- tra uno sguardo languido e un sospiretto - con tanto di smeraldineo ombrellino parasole come una aggraziata Biancaneve e seguita a ruota da un lungo stuolo di veneranti eunuchi (gli uomini del coro in questa sede assolutamente degni di mille lodi) come fossero sette e più nani del bosco dagli atteggiamenti coreutici. Insomma la Pizzolato regala un’interpretazione calzante e ammiccante insieme e condisce il tutto, al termine dell’ultimo atto, con un pizzico di sano spirito emancipatorio.


 La soprano Anna Maria Sarra nel ruolo di Elvira, moglie legittima del Bey, affronta la scena saggiamente mescolando ad un estremizzato e raffinatissimo canto vittimista una buona dose di irritante petulanza sottolineata da una squillante intonatura. Ad Haly –capo dei corsari del Bay- nell’interpretazione del basso baritono Clemente Antonio Daliotti è riservata una psicologia dalla mascolinità cameratesca e ligia agli ordini del suo capo; la voce è forte e la dizione è definita tuttavia la sua figura appare, alle volte, vagamente burattinesca.


Dulcis in fundo risplendono abbaglianti, Mustafà Bey di Algeria nell’interpretazione del basso Michele Pertusi e il signor Taddeo - spasimante di Isabella che si finge suo zio – in quella del baritono Paolo Bordogna. Pertusi con la sua imponenza fisica e vocale riempie la scena intera, ma ciò non lo connota come un individuo minaccioso, per tutta l’opera infatti l’augusto signore vien fatto passar da tutti i suoi comprimari come un bambinone capriccioso e credulone. Il signor Taddeo tra un accaduto ed un altro invece, pur cercando d’esser sempre sicuro e coraggioso, rivela una verve ilare e comicissima allorquando giungendo in un vago stato di confusione mentale si perde in tra mille lazzi. Il suo gesticolare allusivo alla paura d’esser castrato o impalato lo rende agli occhi del pubblico tenero ed amabile. Ma è nel finale del secondo atto che quest’ultimi due impagabili cantanti, seduti l’uno accanto all’altro su due seggioloni da bambini, danno il meglio della loro finissima arte: indelebili sono i loro scambi di battute con intonazioni foniche emule degli Stanlio e Olio del cinema tra il canto di un verso e l’atro-entrambi son gabbati da Isabella e Lindoro che quatti metto in atto la loro fuga da Algeri.


Francesco Esposito (che ha alle spalle una solida formazione registica al fianco di pezzi da novanta come Ronconi, Lavia e Fo) ha curato, oltre all’eccellente regia sempre in bilico tra divertissement e ossequioso rispetto delle fonti storiche in merito a proprietà occidentali dell’opera e turcherie di maniera, anche i costumi. Le fogge simmetriche e lievi di abiti e copri capi, fulgidi di colori pastello e diamante, richiamavano alla mente le atmosfere orientaleggianti di alcuni personaggi dell’Aladdin di Disney: per fare un puntuale esempio le fasce al seno e i pantaloni alla turca, di color turchese con applicazioni in oro, indossati dalle due valenti danzatrici del ventre - che riempivano con la loro bella e importante presenza la scena in molti passaggi di entrambi gli atti - assomigliavano molto agli abiti della bella principessa Jasmine, protagonista femminile della pellicola.


Non meno degni di plauso i sofisticati giochi di luce curati da Andrea Oliva. Sulle luci primarie del proscenio, a cui è dato il chiaro compito di connotare psicologicamente la scena - splendida l’idea del blu cobalto a cui si amalgamano mille bolle di sapone soffiate dagli eunuchi per la scena della preparazione di Isabella all’interno del bagno turco, mentre ella canta Per colui che adoro - si assommano gli iridescenti colori di un cielo baluginante che impreziosisce il fondo scena.


Infine va a Nicola Rubertelli l’onore d’aver creato delle indovinate scenografie: in esse i sensuali quadri del neoclassico pittore francese Jean Auguste Dominique Ingres  - la bagnante di Valpinçon (che appare come spiata, all’interno di un riquadro a forma di toppa), il bagno turco e la grande Odalisca (vero leitmotiv iconografico dell’intero allestimento e riprodotta sul lungo telo nero che a funto da sipario) - si compenetravano fieramente e senza alcuna discontinuità con l’imponente arena a gradoni che - sempre grazie al lavorio costante delle luci - appariva ora celeste ora arancione richiamando alla mente una piscina, un bagno turco, un cortile interno un harem un arenile.


In questo luogo stabile ma tanto cangiante venivano issate le doppie vele del galeone italiano arenato e anche alcune cordate di abiti maschili all’occidentale stesi e irrigiditi dalla salinità del mare da cui sembravano esser stati raccolti dopo il naufragio. Tutti i personaggi si trovavano dalla loro, poi, tutta un ingegnosa e settecentesca ornamentazione composta da trasparenti tendaggi, e separé traforati (molto tipici degli idealizzati ambienti arabi) da cui potevano, all’occasione, spiare senz’essere veduti.

Il pubblico impazzisce di soddisfazione sovente, e lo da a sentire; accade con gli scroscianti applausi alla stretta finale del primo atto “Va sossopra il mio cervello” in essa gli eccentrici suoni onomatopeici (ta ta, cra cra, bum bum, din din) ripetuti, nel cantato, a elevatissima velocità formano un magma sonoro di sorprendente difficoltà tecnica, gli interpreti però gestiscono un tale frastuono rossiniano delle voci - in cui si dee perdere la percezione dei singoli versi -accentuando e dunque facendo restare vivi e chiaramente percepibili gli allegri suoni onomatopeici.


Questa meticolosità ci piace! Il tutto, poi, è guarnito da una piccola battaglia pugnata a suon di candida biancheria intima da uomo e donna che i personaggi si lanciano infantilmente tra loro. O ancora l’ovazione meritatissima, al quartetto di chiusura della scena quinta del primo atto “Sento un fremito un fuoco un dispetto” in cui alle buffe movenze dispettose e irriverenti dei tre stranieri -Isabella, Taddeo e Lindoro - si contrappone la voce grossa e il piglio comandino di un Mustafà che però appare, in definitiva, più rassomigliante ad un innocuo burbero papà che ad un Bey vecchio stile. Ha proprio ragione Rossini, quando fa dir in conclusione d’opera a tutti i suoi personaggi (Isabella consapevole e compresa) “La bella Italiana venuta in Ageri, insegna agli amanti gelosi ed alteri che a tutti la Donna, se vuole, la fa.” mai verso risulta più appropriato.


Questa Italiana ha colto nel segno e ha rapito il cuore di tutti coloro che riempivano il golfo mistico. Oggi come ieri si conferma quale amabile e stuzzicante evergreen operistico dunque assolutamente degno del dvd che la Rai (dopo le riprese effettuate nei giorni scorsi) sembra intenzionata a confezionare.

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