sabato 18 gennaio 2014

I fantasmi del passato del Servitore senza maschera: l’Arlecchino di Latella

Il Servitore di due Padroni di Antonio Latella, ancor prima di approdare a Bologna, portava con sé critiche, dalle più feroci e tradizionaliste, alle espansive e lungimiranti.


Balza subito all’occhio la proposta di un Goldoni non convenzionale, ambientato di fatto in un albergo anni Sessanta. Una parapettata con porte numerate, lampade da muro, un ascensore e un televisore sul fondo sempre acceso su programmi inglesi faranno da cornice alla celebre commedia che dal suo primo debutto del 1745 ha acquisito non poche novità.
Merito (o colpa) anche del drammaturgo attore Ken Ponzio, il quale sfida i puristi per tentare di smuovere le fila di un teatro italiano che, più che stabile, sembra fossilizzato in un tempo non più attuale. A investire sul progetto, tra l’altro, sono proprio i teatri stabili (Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Teatro Metastasio di Prato, Teatro Stabile del Veneto) che condividono l’impresa della  totale riscrittura dell’opera; perseguire il dovere di parlare con la forza della tradizione all’uomo per lanciarsi in avanti, nel tempo che verrà.


Il racconto è stato destrutturato tanto da non riconoscere il testo originale. Le luci della ribalta presentano Brighella Cavicchio (Massimiliano Speziani), vestito di tutto punto in frac, che sgambetta da una parte e l’altra del palco, impegnato a rincorrere le due personalità che incarna: il proprietario del lussuoso albergo che accoglie gli ospiti, e il narratore che legge le didascalie del copione con voce amplificata dalla cornetta di un telefono, preannunciando atti e azioni dei protagonisti. Questi parlano tutti in italiano corrente, all’infuori di Pantalone che non abbandona il dialetto veneziano. Indossano tailleur, gonne e scamiciati tranne Silvio Lombardi, pretendente di  Clarice, figlia di Pantalone De Bisognosi, in parrucca e braghe settecentesche. 


Le  ambigue geometrie di relazioni intessute tra i personaggi forniscono all’opera di Latella un mélange di commedia e dramma borghese, di antico e quotidiano. Anche le relazioni sociali e identitarie sono destinate ad essere modificate. Il rapporto servo-padrone che lega Arlecchino e Beatrice diventa fraterno: egli diventa suo fratello, quel Federigo Rasponi che si credeva morto, e il legame tra i due viene caricato di un’ambiguità incestuosa insistente, marcata anche dagli indumenti maschili di Beatrice, presenti già nel testo originale, ma ora ancor più accentuati. Florindo entra in scena con la gonna e accompagnato da una musica pop assordante. Smeraldina, la serva spensierata, è elevata a portavoce dei diritti delle donne, Pantalone è il perfetto ritratto dell’uomo d’affari moderno. E poi Arlecchino, sin da subito sdraiato morto e nascosto per metà dietro le quinte, che nega se stesso (infatti si presenta come “Arlecchi-NO, Arlecchi-NO”), nega la sua maschera, tanto da non indossarla neanche. Rinuncia al vestito a rombi colorati per un bianco totale e cerca il suo vero volto: “Morire per non morire, morire per mettere un punto e andare a capo” annuncia Latella in un’intervista. 


Dopo questo lungo preambolo, la seconda parte dovrebbe mostrare il senso vero di tutta l'opera. Il regista e il drammaturgo svelano cuore e radici del dramma. La macchina scenica viene sventrata completamente; tutto viene smontato pezzo-pezzo, mentre vengono trasmessi i rumori e i dialoghi delle prove, registrati e amplificati. In scena Arlecchino, Florindo e Beatrice, o meglio, gli interpreti Roberto Latini, Marco Cacciola e Federica Fracassi. Lei in preda a convulsioni frenetiche si spoglia delle vesti disperate, destinata allo smascheramento dal ruolo. Latini ripete con strazio crescente la Pantomima della Mosca. E poi si invoca la Resurrezione biblica come auspicio vitale.

Il parere del pubblico si spacca in due, chi condanna e chi osanna.

Di sicuro il Servo di Latella è stato un pretesto per ragionare sulla teatralità, sul  rapporto con la tradizione che viene messa in discussione, decostruita e svelata lungo tutto lo spettacolo. Per progredire bisogna osare. Non sempre è facile ammetterlo.

Visto all'Arena del Sole. Bologna, 16 gennaio 2013.

Angela Sciavilla
 


1 commento:

  1. Complimenti per l'analisi direi perfetta di quest'opera! E grazie per aver chiarito alcuni passaggi non cosi' chiari

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