giovedì 13 marzo 2014

Dossier Liberata: tra laboratorio e via Crucis

“Questa è la Via Crucis di Liberata, povera donna.
Alla prima stazione è condannata alle pene d'amore,
Alla seconda cade e si rialza,
Alla terza si degrada mangiando ossa di animali,
Alla quarta vede l'innominabile,
Alla quinta inchiodata sul muro del pianto,
Alla sesta trasfigurata, ma è solo un'impressione,
Alla settima mostrata al pubblico ludibrio,
All'ottava venduta ai farisei,
Alla nona salva ed è dannata,
E alla decima, messa in croce, sconta tutto il dolore del mondo
E muore.”

Ogni via crucis, ha i suoi simboli: il sudario, la croce, la corona di spine. Per raccontare la storia di Liberata servono: pentole di rame, come quelle di una volta, un velo da sposa, un vestito da serva, un mazzo di carte, una corda, lucine da fiera, un muro di mattoni, una gabbia di catene e ferro e le ombre su un tappeto bianco. È la storia di una Romagna immaginaria: dell'ignoranza che, in un'Italia anni '60, certo contribuiva a rimettere continuamente la donna al suo posto di madre-serva-angelo del focolare. La storia delle vittime.


In scena quattro sedie, quattro personaggi condannati beckettianamente a raccontare sempre la stessa storiella di provincia sospesa tra la nebbia e il mare, i baracchini da fiera, col tiro a segno e i calcinculo, e il furgoncino di Italo (Andrea Gadda), uno spiantato ambulante, il bellimbusto di provincia, l’uomo dei sogni “con la sua sigaretta in bocca come un attore del cinema” che all’immagine ci tiene perché è la seduzione la sua sola arma. Dunque sarà meglio che la Liberata (Micaela Casalboni), sua moglie, si sbrighi a prepararlo bene prima che esca di casa per andare a lavoro.
L’8 marzo, festa internazionale della donna, Liberata, scritto nel 2006, è alla sua seconda ripresa all’ITC Teatro di San Lazzaro di Savena: arriva come un pugno nello stomaco a ricordarci la ciclicità di un gioco feroce, la crudeltà di un circo di violenza domestica che, con tinte surreali e felliniane, racconta storie di catene mai spezzate che riguardavano i nostri nonni e ci riguardano ancora. Quotidianamente storie simili coinvolgono i lettori e i cronisti di nera che, complici l’uno dell’altro, ricercano morbosamente il particolare e spiano dal buco della serratura proprio come gli spettatori cui si fa spesso riferimento durante lo spettacolo. Certo la nera a teatro ha lo scopo opposto di ciò che si legge sui giornali: Liberata non è uno spettacolo che sazia la sete di sangue ma spinge piuttosto alla riflessione, non porta in scena ricostruzioni e plastici e neanche una storia reale ma una vicenda tanto verosimile nei suoi impulsi elementari da trovare, a fine spettacolo, una platea coinvolta, curiosa e partecipe al dibattito con attori e regista.
Liberata, donna di mezza età, bianca di pane, tutta casa e chiesa, è sedotta e martirizzata da quell’uomo di cui sopporta ogni angheria perché minacciata con la forza, soffocata dall’ansia di non dare scandalo nel paese (la platea) i cui occhi le sono sempre addosso. Se ci mettiamo nei suoi panni la storia, che assume tinte da melò, è già scritta prima di cominciare: è il suo carnefice l’ultimo uomo rimasto per lei sulla terra. Italo, altrettanto perfetto contraltare, è affezionato solo alle terre della povera madre di lei e progetta di lucrarci sopra. I due si sposano, ma solo in comune, così che lui si senta giustificato nel tradirla con altre donne fino a progettare di venderla all’assessore locale. Liberata non può accettare quest’ultimo sopruso e prega un Dio che non si vede, che gioca a mosca cieca, affinché le faccia la grazia: ecco allora spuntarle la barba come all’omonima santa che nel calendario cristiano si festeggia tutt’oggi l’11 gennaio. La leggenda medievale narra di Santa Liberata che, promessa in matrimonio a un re, decide di essere solo sposa di Cristo, e invoca un miracolo per scampare le nozze. Dio le dona la barba e lei finisce crocifissa per avere contraddetto la volontà paterna. La nostra Liberata prima di soccombere sopraffatta dal martirio, compie il miracolo di salvare Italo dal degrado totale. Il racconto però riparte, in eterno: le due bambine, rimaste sole, possono ricominciare l'estenuante gioco di soprusi e umiliazioni.


Italo infatti è vedovo e ha due bambine: sono loro che attraverso un gioco di disegni portano avanti la storia scaricando paure e sensi di colpa sulla nuova venuta. Le bimbe sono interpretate da Giulia Franzaresi (Primo, la ragazza più grande che cela nei suoi sguardi duri gli abusi del padre) e Frida Zerbinati (Fiorina, bipolare, liliale e demoniaca bambola, minata nella sua innocenza) che hanno saputo tener testa ai due eccellenti protagonisti. Le musiche raccontano gli ambienti della storia: vanno da Casta diva a Besame mucho fino a un popolare motivetto della Cinquetti.
Influenze, latenti più che esplicite, per questo lavoro si ritrovano, oltre che nelle suggestioni del circo di Fellini, di Beckett, della danza macabra medievale anche in Romeo e Giulietta, infine in Grotowski. A quest’ultimo ci riferiamo non tanto pensando al martirio del Principe Costante, quanto piuttosto a come le idee del maestro polacco -il suo teatro povero, ricerca in primo luogo di un rapporto autentico e diretto tra gli attori e col pubblico- siano fonte inesauribile di ispirazione. Quando scrisse Liberata, Nicola Bonazzi veniva dall’esperienza dei monologhi per Perrotta, voleva cambiare e assumersi il rischio della sperimentazione forte della solidità degli attori dell’Argine che conosceva bene. Una drammaturgia non autosufficiente dunque, piuttosto la pagina bianca di una scena che non conclude e che spiazza, perché lascia liberi gli attori di masticare e metabolizzare il copione restituendo gesti, comportamenti e suoni, direttamente dal proprio vissuto, dalle proprie esperienze. Infatti agli attori veniva naturale parlare il loro dialetto in scena e la storia acquistava, grazie agli accenti tronchi e leggeri di una lingua in disuso, una forza altrimenti difficile da trovare. Il dialetto da solo non basta, e in più rischia di ingabbiare la storia nel provincialismo che essa stessa stigmatizza, dunque bisogna ricorrere ai gesti: il training psico-fisico tenuto da Caterina Bartoletti assieme agli attori li ha impegnati dalle quattro alle sette ore al giorno ma alla fine il vocabolario fisico dei loro personaggi ha assunto accenti talmente netti che, in vista della ripresa, è bastata una sola settimana di prove a far riemergere ciò che si era sedimentato in questi otto anni.
L’idea di teatro povero, oltre che nell’ attenzione agli attori, è nella scenografia minimalista di Nicola Bruschi (ridotta agli essenziali oggetti elencati sopra), è nei costumi di Cristina Gamberini, è nel testo in sé e per sé incompleto, perché, come ammette l’autore Nicola Bonazzi, a contare in questo caso è il pretesto offerto dai contorni sfumati della tematica, apologo per una scrittura scenica, una drammaturgia consuntiva. Liberata è caro al Teatro dell’Argine e rimarrà in cartellone perché nella sua semplicità romagnola contiene tutto e il contrario di tutto: il dialetto di una piccola provincia e il gesto universale; l’impegno politico ma anche il gioco, il riso e il pianto, la performance del grande attore e il lavoro d’ensemble; l’attenzione alle piccole storie e lo sguardo ai grandi pubblici che hanno fatto di un teatro così attento alla marginalità un teatro internazionale.



Visto all'ITC Teatro di San Lazzaro di Savena, l'8 marzo 2014


Edoardo Pitrè

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