Introduzione di merito
La seguente recensione necessita forse di
un’introduzione da parte di chi scrive: nell’ambito degli studi per la tesi di
dottorato, è necessario un confronto con allestimenti scenici innovativi e
arditi nel panorama teatrale francese e italiano contemporaneo. Il Théâtre du
Radeau, che propone nell’ambito del Festival d’Automne di Parigi la sua ultima
creazione, fin dagli anni Ottanta presenta un lavoro interessato al rapporto
tra luci, suoni, movimenti e gesti, ispirati in parte alla danza e alle
performance circensi: spettacoli che spesso citano brani di testi teatrali, ma
anche filofosici o letterari più in generale. Ecco che allora la scena produce
una vera e propria drammaturgia visiva, nella quale tutti gli elementi (suoni,
parola, gesto, immagini) si ritrovano allineati e ordinati unicamente
dall’organizzazione mentale del creatore. In questo frangente, i titoli degli
spettacoli della compagnia spesso sono ispirati a movimenti mucisali (vedi Coda,
Chorale), ma non necessariamente: per il titolo del suo spettacolo Onzième,
Tanguy (regista della compagnia), afferma che non significa assolutamente
niente di logico, e che spera (in modo ironico naturalmente) che questo
chiarimento rassicurerà tutti gli spettatori. Passim rappresenta dunque
un’esperienza necessaria non solo per chi è incuriosito dagli sviluppi più
fertili del teatro attuale, ma anche nell’ottica della ricerca specifica del
sottoscritto. Tanto più che questo spettacolo si inserisce nel quadro del
festival teatrale più importante parigino, che propone quest’anno uno spazio
specifico dedicato tra gli altri a Romeo Castellucci (che si spera troverà
spazio anche in queste pagine).
Recensione
Fin dalla sua entrata in sala, lo spettatore può
vedere sulla scena i veri protagonisti dell’allestimento: delle strutture in
ferro, come riquadri,di porte e finestre che durante lo spettacolo si “aprono”
per lasciar intravedere, lasciar immaginare momentaneamente i vari testi
evocati dagli attori. Ai lati della scena, si vedono appoggiate le quinte usate
solitamente sul palco: altre grandi quinte di legno, e tavoli e porte saranno
mosse e animate dagli attori in scena, in una danza continua, come un gioco di
scatole cinesi, che fagociterà uno dopo l’altro i mondi testuali. L’architrave,
la struttura della scena, il suo scheletro, sembrano così tornare in vita in un
gioco metateatrale.
Ma partiamo dall’inizio. Una luce crepuscolare
accoglie l’entrata di una sola attrice, mentre in una posa volontariamente
statica lascia ascoltare il suo testo al pubblico. L’enunciato coinvolge
soprattutto per la sua materia poetica, il significante è privilegiato rispetto
al significato, e spesso i silenzi che interrompono la declamazione sono più
evocativi del brano stesso, nel loro effetto straniante. Gli altri interpreti
spostano poi l’attrice come una marionetta e la musica copre per la prima volta
il testo, come succederà in modo continuo per tutto il resto dello spettacolo:
quando non è la musica a svolgere questa funzione, ci pensa la danza di porte e
quinte mosse dagli attori.
A volte gli interpreti arrivano quasi
all’immedesimazione nei personaggi: soprattutto quando viene evocata la scena
del Re Lear che lo porta alla pazzia, nel momento in cui il re esclude dalla
divisione del suo regno l’amata Cordelia. Ma anche in questo caso la musica, il
canto del re, forse espressione della sua pazzia, copre infine lentamente
questa scena, e resta soltanto l’impressione di un’impossibilità del dire
evocata dalla famosa scena shakespeariana. La stessa impressione si ritrova in
un secondo momento con l’entrata di Don Chisciotte a cavallo del suo
Ronzinante: il testo viene declamato in spagnolo, ma gli altri interpreti
coprirono il volto dell’attore con un elmo, in modo da rendere ancora meno comprensibile
il brano.
I frammenti testuali, ostacolati così dalle
azioni sceniche, cercano di farsi ascoltare tramite la radio, ma un’ultima
volta la musica copre questo tentativo. Su scena restano quindi solo le sue
architravi (porte e quinte), mosse dagli attori non più visibili. Poi nel
silenzio e nel buio tornano lentamente gli interpreti, semplici figure umane,
solo per ricevere l’applauso finale.
Cosa rimane allo spettatore? Una sorprendente
e ammirevole capacità di esecuzione degli attori, soprattutto nei loro
movimenti che si avvicinano a quelli di una danza (in cui il richiamo a Kantor
a volte diventa vera e propria citazione-omaggio). Delle immagini suggestive e
a tratti divertenti, come l’immagine-icona dello spettacolo nel foglio di sala,
ovvero il Don Chisciotte con addosso l’elmo. Delle musiche e canti mugolati
(soprattutto il re Lear) che inducono vere emozioni. Dei frammenti testuali,
ben declamati, in pose volontariamente statiche, che sono assai caratteristiche
(troppo) del teatro francese. Resta infine un’operazione registica
affascinante, ma nel suo evidente carattere erudito forse un po’ troppo cerebrale.
Le Théâtre du Radeau
Visto il 5 ottobre 2014 al Théâtre de
Gennevilliers, Parigi nell’ambito del Festival d’Automne.
Fabio Raffo
Mi sembra doveroso rettificare un dettaglio: effettivamente la figura a cavallo ricorda il Don Chisciotte, ma il testo declamato è tratto da La vita è un sogno di Calderon de La Barca.
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