venerdì 17 ottobre 2014

Passim: sguardo sul Festival d'Automne

Introduzione di merito
La seguente recensione necessita forse di un’introduzione da parte di chi scrive: nell’ambito degli studi per la tesi di dottorato, è necessario un confronto con allestimenti scenici innovativi e arditi nel panorama teatrale francese e italiano contemporaneo. Il Théâtre du Radeau, che propone nell’ambito del Festival d’Automne di Parigi la sua ultima creazione, fin dagli anni Ottanta presenta un lavoro interessato al rapporto tra luci, suoni, movimenti e gesti, ispirati in parte alla danza e alle performance circensi: spettacoli che spesso citano brani di testi teatrali, ma anche filofosici o letterari più in generale. Ecco che allora la scena produce una vera e propria drammaturgia visiva, nella quale tutti gli elementi (suoni, parola, gesto, immagini) si ritrovano allineati e ordinati unicamente dall’organizzazione mentale del creatore. In questo frangente, i titoli degli spettacoli della compagnia spesso sono ispirati a movimenti mucisali (vedi Coda, Chorale), ma non necessariamente: per il titolo del suo spettacolo Onzième, Tanguy (regista della compagnia), afferma che non significa assolutamente niente di logico, e che spera (in modo ironico naturalmente) che questo chiarimento rassicurerà tutti gli spettatori. Passim rappresenta dunque un’esperienza necessaria non solo per chi è incuriosito dagli sviluppi più fertili del teatro attuale, ma anche nell’ottica della ricerca specifica del sottoscritto. Tanto più che questo spettacolo si inserisce nel quadro del festival teatrale più importante parigino, che propone quest’anno uno spazio specifico dedicato tra gli altri a Romeo Castellucci (che si spera troverà spazio anche in queste pagine).


Recensione
Fin dalla sua entrata in sala, lo spettatore può vedere sulla scena i veri protagonisti dell’allestimento: delle strutture in ferro, come riquadri,di porte e finestre che durante lo spettacolo si “aprono” per lasciar intravedere, lasciar immaginare momentaneamente i vari testi evocati dagli attori. Ai lati della scena, si vedono appoggiate le quinte usate solitamente sul palco: altre grandi quinte di legno, e tavoli e porte saranno mosse e animate dagli attori in scena, in una danza continua, come un gioco di scatole cinesi, che fagociterà uno dopo l’altro i mondi testuali. L’architrave, la struttura della scena, il suo scheletro, sembrano così tornare in vita in un gioco metateatrale.


Ma partiamo dall’inizio. Una luce crepuscolare accoglie l’entrata di una sola attrice, mentre in una posa volontariamente statica lascia ascoltare il suo testo al pubblico. L’enunciato coinvolge soprattutto per la sua materia poetica, il significante è privilegiato rispetto al significato, e spesso i silenzi che interrompono la declamazione sono più evocativi del brano stesso, nel loro effetto straniante. Gli altri interpreti spostano poi l’attrice come una marionetta e la musica copre per la prima volta il testo, come succederà in modo continuo per tutto il resto dello spettacolo: quando non è la musica a svolgere questa funzione, ci pensa la danza di porte e quinte mosse dagli attori.
A volte gli interpreti arrivano quasi all’immedesimazione nei personaggi: soprattutto quando viene evocata la scena del Re Lear che lo porta alla pazzia, nel momento in cui il re esclude dalla divisione del suo regno l’amata Cordelia. Ma anche in questo caso la musica, il canto del re, forse espressione della sua pazzia, copre infine lentamente questa scena, e resta soltanto l’impressione di un’impossibilità del dire evocata dalla famosa scena shakespeariana. La stessa impressione si ritrova in un secondo momento con l’entrata di Don Chisciotte a cavallo del suo Ronzinante: il testo viene declamato in spagnolo, ma gli altri interpreti coprirono il volto dell’attore con un elmo, in modo da rendere ancora meno comprensibile il brano.
I frammenti testuali, ostacolati così dalle azioni sceniche, cercano di farsi ascoltare tramite la radio, ma un’ultima volta la musica copre questo tentativo. Su scena restano quindi solo le sue architravi (porte e quinte), mosse dagli attori non più visibili. Poi nel silenzio e nel buio tornano lentamente gli interpreti, semplici figure umane, solo per ricevere l’applauso finale.


Cosa rimane allo spettatore? Una sorprendente e ammirevole capacità di esecuzione degli attori, soprattutto nei loro movimenti che si avvicinano a quelli di una danza (in cui il richiamo a Kantor a volte diventa vera e propria citazione-omaggio). Delle immagini suggestive e a tratti divertenti, come l’immagine-icona dello spettacolo nel foglio di sala, ovvero il Don Chisciotte con addosso l’elmo. Delle musiche e canti mugolati (soprattutto il re Lear) che inducono vere emozioni. Dei frammenti testuali, ben declamati, in pose volontariamente statiche, che sono assai caratteristiche (troppo) del teatro francese. Resta infine un’operazione registica affascinante, ma nel suo evidente carattere erudito forse un po’ troppo cerebrale.

Le Théâtre du Radeau

Visto il 5 ottobre 2014 al Théâtre de Gennevilliers, Parigi nell’ambito del Festival d’Automne.

Fabio Raffo

1 commento:

  1. Mi sembra doveroso rettificare un dettaglio: effettivamente la figura a cavallo ricorda il Don Chisciotte, ma il testo declamato è tratto da La vita è un sogno di Calderon de La Barca.

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