You are my destiny (Lo stupro di Lucrezia), ultima creazione
dell'artista catalana Angélica Liddell, è un corpo multiforme e spigoloso,
pungente e provocatorio, che inizia ancor prima di raccontarsi. La regista
stessa, al limite del proscenio, introduce al pubblico la sua visione
crepuscolare: un'idea che porta in grembo fin dalla sua esperienza alla
Biennale Teatro di Venezia nell'estate 2013. In quell'occasione infatti diede
origine ad un primo studio sul poemetto scritto dal Bardo nel 1594, per dar
voce all'invettiva di una donna contro la violenza subita.
Ogni cellula per nascere necessita di un nucleo che sappia nutrirla e crescerla. Non importa quali siano gli elementi scatenanti che la originano: ciò che conta è che quest'energia impellente, tratteggiata e sospesa in atmosfere impercettibili, trovi forma in un vero impulso vitale. Come il grido, di vita prima che di morte, travolgente, nato negli anfratti della laguna blu di Venezia, “dove stelle che si credevano ormai spente tornano a splendere. In un pomeriggio d'estate ho camminato a Venezia tra angeli e cori ucraini... Il tempo del sacro è cominciato”. You are my Destiny nasce da quest'impellenza, ispirandosi al testo shakespeariano, nonché a brani della Storia di Roma dalla sua fondazione di Tito Livio, e li mescola con richiami precisi ai codici rituali medioevali.
Ogni cellula per nascere necessita di un nucleo che sappia nutrirla e crescerla. Non importa quali siano gli elementi scatenanti che la originano: ciò che conta è che quest'energia impellente, tratteggiata e sospesa in atmosfere impercettibili, trovi forma in un vero impulso vitale. Come il grido, di vita prima che di morte, travolgente, nato negli anfratti della laguna blu di Venezia, “dove stelle che si credevano ormai spente tornano a splendere. In un pomeriggio d'estate ho camminato a Venezia tra angeli e cori ucraini... Il tempo del sacro è cominciato”. You are my Destiny nasce da quest'impellenza, ispirandosi al testo shakespeariano, nonché a brani della Storia di Roma dalla sua fondazione di Tito Livio, e li mescola con richiami precisi ai codici rituali medioevali.
Il palcoscenico diviene in questo modo il luogo del rito, il
perimetro entro cui la regista inserisce fin dal primo istante elementi che
rimandano ad una misticità spirituale, quasi a voler invocare e incarnare su di
sé le vesti di cerimoniere, determinandone i tempi, i ritmi, la vita e la
morte.
“Il tempo del sacro è cominciato”. Una frase che dà
materialmente avvio allo spettacolo, mentre un coro di voci ucraine accompagna
la prima visione della Liddell tra le vie di Venezia: si dice inseguita da un
uomo, è certa che la stuprerà e la ucciderà ma non prova paura. Il terrore la
divora quando l'uomo scompare e quando sente su di sé lo sguardo giudicante di
un gruppo di donne. “Qui finisce il sogno ed inizia la vita”: la regista si
chiude ermeticamente nel giubbotto di pelle indossato sopra ad un abito
turchese di paillette e tulle. Così si esce dal sogno raccontato per entrare
nel suo più vivo compimento.
Una schiera di uomini si materializza in scena accompagnata
da un ritmo di tamburi: presagio di morte, invocazione di forze divoratrici che
cresce, fino a divenire un richiamo di grida sempre più forte che trasforma le
voci in gemiti, i corpi in fremiti, in una ritualità che pare non arrestarsi.
La Liddell fluttua tra gli impulsi sempre più cadenzati, in quello che non
appare come grido di silenzio ma come un flusso che origina vita. Il corpo
della regista ondeggia nel ritmo del tamburo, fino a scomparire, attraverso le
urla strazianti.
I tamburi escono dalla scena e sul fondo compaiono in fila
alcuni uomini che restano sospesi, seduti sul vuoto. Con la schiena appoggiata
al muro, emettono grida di sofferenza. La Liddell, incurante di quanto sta
accadendo, si estrae dalla scena e sfodera il suo cellulare, in un'evidente
astrazione provocatoria: non solo rispetto allo strazio dei corpi abbandonati,
ma anche e soprattutto nei confronti del pubblico. La regista detta i suoi
tempi, lascia gli eventi in una stasi assurda quanto irreale. In proscenio, di
spalle, resta Lucrezia, silenziosa spettatrice. Osserva la Liddell uscire dal
suo stato di a-temporalità tecnologica per finalmente consolare gli uomini
sofferenti. Ma è consolazione di breve durata: al segnale della regista i
performer iniziano ad auto-flagellarsi con alcuni fazzoletti bagnati.
Lucrezia si spoglia e si sdraia a terra per prepararsi allo
stupro: il suo corpo, simile a quello di una bambola passa da un violentatore
all'altro. Così ogni uomo offre una diversa immagine, in pose statiche, del
proprio istinto animale, appassionato, lento o vorace. Da ciascun incontro
d'amore nascono i fiori.
Arriva il momento della morte: la Liddell accompagna
Lucrezia verso il suo triste destino, mentre quest'ultima si auto-schernisce il
petto, in un gesto esasperato che richiama la dualità tra stupro ed amore. I versetti
biblici di Isaia sullo schermo in proscenio propongono la metafora dell'uva,
mentre la Liddell dà inizio al suo rito
ancestrale: cosparge la scena di acini, beve birra e la getta a terra, canta,
balla e grida. Dispone tre fazzoletti bianchi a terra e su ciascuno di essi
pigia l'uva, mentre il suono quasi assordante delle campane l'accompagna.
La seconda parte del rituale propone l'esumazione dei due
corpi di Lucrezia e Tarquinio. Essi, trasportati da una schiera di uomini in
lunghe tuniche nere, vengono cosparsi di foglie d'alloro e di chicchi di riso.
L'assurdità vuole che i due trovino l'amore nella morte, “sulle fiamme più alte
delle onde dell'Adriatico”, come ripete insistentemente in modo stridente la
Liddell.
“L'unico che parlò d'amore fu lo stupratore Tarquinio. Non
parlò di potere, nazione, patria...”. Con queste parole la regista celebra un
finale che si chiude sulle note “You are my destiny..." di Paul Anka...Entra in
scena una strana auto di nozze che pare più un carro funebre, con tanto di
ghirlande e con una specie di cane alato morto sul tettuccio della macchina.
Tutti, performer e registi si muovono sinuosamente sulle note della canzone
lasciando a poco a poco la scena.
Più che uno spettacolo sullo stupro, quello della Liddell
pare più un lavoro su un amore altro: indefinibile, inqualificabile, oltre
qualsiasi limite convenzionale. Un sentimento che vede Lucrezia e Tarquinio
destinati a restare eternamente uniti tra le fiamme dell'inferno. Per questo,
il grido invocato a gran voce dalla regista è prima di tutto un urlo di vita
che nasce dagli abissi profondi e oscuri della morte. In questo grido la
performance offre uno scenario di linguaggi, e simbologie che rimandano a mille
universi differenti. Forse troppi, si resta schiacciati, imbambolati, ci si
perde in essi, per poi ritrovarsi in
quel groviglio dissacrante che la Liddell compone pezzo dopo pezzo come la
“sua” visione. Un'immagine che si materializza attraverso i suoi tocchi, le sue
grida, i suoi segnali. Cerimoniere del tempo, oltre che di significati,
contemplatrice dell'universo che si dispiega via via, la regista in scena
appare come una Lucrezia che interroga, svela sé stessa.
Lo spettacolo vive continuamente di piani doppi, triplici,
che si sovrappongono: la Liddell si insinua
nelle vesti di Lucrezia, ne esce, accompagna i personaggi, invoca e si
fonde in grida assordanti, danza, vive come una creatura aliena le viscere
della propria creazione.
Lo spettacolo della Liddell sfugge a ogni tentativo di
definizione. Si tratta di una creazione che divide per la sua natura
irriverente, per il suo impatto di visioni non mediate, per osare l'indicibile
e l'inimmaginabile: uno stupro che abbandona il suo status immutabile di atto
contro-natura per divenire un amore altro. Certo, i mezzi per farlo spesso si
traducono in dilatazioni forse eccessive, a volte perfino superflue, mescolando
troppi elementi e simbologie che si rivelano fuorvianti. Ma il desiderio di interrogare quello stupro
riesce a fare di You are my destiny un atto di vita prima che di morte. E la
vita torna prepotentemente e ironicamente in scena nei saluti sulle note di
“Gloria” di Umberto Tozzi, forse un modo per debellare gli spiriti potenti
invocati in scena, accorgendosi così di quei chicchi d'uva sparsi in platea:
vero ultimo residuo di una ritualità che sfuma.
Visto a Modena, VIE Festival il 16.10.2014
Carmen Pedullà
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