lunedì 20 ottobre 2014

You are my destiny: il destino fuori dalle righe di Angélica Liddell

You are my destiny (Lo stupro di Lucrezia), ultima creazione dell'artista catalana Angélica Liddell, è un corpo multiforme e spigoloso, pungente e provocatorio, che inizia ancor prima di raccontarsi. La regista stessa, al limite del proscenio, introduce al pubblico la sua visione crepuscolare: un'idea che porta in grembo fin dalla sua esperienza alla Biennale Teatro di Venezia nell'estate 2013. In quell'occasione infatti diede origine ad un primo studio sul poemetto scritto dal Bardo nel 1594, per dar voce all'invettiva di una donna contro la violenza subita.
Ogni cellula per nascere necessita di un nucleo che sappia nutrirla e crescerla. Non importa quali siano gli elementi scatenanti che la originano: ciò che conta è che quest'energia impellente, tratteggiata e sospesa in atmosfere impercettibili, trovi forma in un vero impulso vitale. Come il grido, di vita prima che di morte, travolgente, nato negli anfratti della laguna blu di Venezia, “dove stelle che si credevano ormai spente tornano a splendere. In un pomeriggio d'estate ho camminato a Venezia tra angeli e cori ucraini... Il tempo del sacro è cominciato”.  You are my Destiny nasce da quest'impellenza, ispirandosi al testo shakespeariano, nonché a brani della Storia di Roma dalla sua fondazione di Tito Livio, e li mescola con richiami precisi ai codici rituali medioevali.

Il palcoscenico diviene in questo modo il luogo del rito, il perimetro entro cui la regista inserisce fin dal primo istante elementi che rimandano ad una misticità spirituale, quasi a voler invocare e incarnare su di sé le vesti di cerimoniere, determinandone i tempi, i ritmi, la vita e la morte.
“Il tempo del sacro è cominciato”. Una frase che dà materialmente avvio allo spettacolo, mentre un coro di voci ucraine accompagna la prima visione della Liddell tra le vie di Venezia: si dice inseguita da un uomo, è certa che la stuprerà e la ucciderà ma non prova paura. Il terrore la divora quando l'uomo scompare e quando sente su di sé lo sguardo giudicante di un gruppo di donne. “Qui finisce il sogno ed inizia la vita”: la regista si chiude ermeticamente nel giubbotto di pelle indossato sopra ad un abito turchese di paillette e tulle. Così si esce dal sogno raccontato per entrare nel  suo più vivo compimento.


Una schiera di uomini si materializza in scena accompagnata da un ritmo di tamburi: presagio di morte, invocazione di forze divoratrici che cresce, fino a divenire un richiamo di grida sempre più forte che trasforma le voci in gemiti, i corpi in fremiti, in una ritualità che pare non arrestarsi. La Liddell fluttua tra gli impulsi sempre più cadenzati, in quello che non appare come grido di silenzio ma come un flusso che origina vita. Il corpo della regista ondeggia nel ritmo del tamburo, fino a scomparire, attraverso le urla strazianti.
I tamburi escono dalla scena e sul fondo compaiono in fila alcuni uomini che restano sospesi, seduti sul vuoto. Con la schiena appoggiata al muro, emettono grida di sofferenza. La Liddell, incurante di quanto sta accadendo, si estrae dalla scena e sfodera il suo cellulare, in un'evidente astrazione provocatoria: non solo rispetto allo strazio dei corpi abbandonati, ma anche e soprattutto nei confronti del pubblico. La regista detta i suoi tempi, lascia gli eventi in una stasi assurda quanto irreale. In proscenio, di spalle, resta Lucrezia, silenziosa spettatrice. Osserva la Liddell uscire dal suo stato di a-temporalità tecnologica per finalmente consolare gli uomini sofferenti. Ma è consolazione di breve durata: al segnale della regista i performer iniziano ad auto-flagellarsi con alcuni fazzoletti bagnati.
Lucrezia si spoglia e si sdraia a terra per prepararsi allo stupro: il suo corpo, simile a quello di una bambola passa da un violentatore all'altro. Così ogni uomo offre una diversa immagine, in pose statiche, del proprio istinto animale, appassionato, lento o vorace. Da ciascun incontro d'amore nascono i fiori.
Arriva il momento della morte: la Liddell accompagna Lucrezia verso il suo triste destino, mentre quest'ultima si auto-schernisce il petto, in un gesto esasperato che richiama la dualità tra stupro ed amore. I versetti biblici di Isaia sullo schermo in proscenio propongono la metafora dell'uva, mentre  la Liddell dà inizio al suo rito ancestrale: cosparge la scena di acini, beve birra e la getta a terra, canta, balla e grida. Dispone tre fazzoletti bianchi a terra e su ciascuno di essi pigia l'uva, mentre il suono quasi assordante delle campane l'accompagna.
La seconda parte del rituale propone l'esumazione dei due corpi di Lucrezia e Tarquinio. Essi, trasportati da una schiera di uomini in lunghe tuniche nere, vengono cosparsi di foglie d'alloro e di chicchi di riso. L'assurdità vuole che i due trovino l'amore nella morte, “sulle fiamme più alte delle onde dell'Adriatico”, come ripete insistentemente in modo stridente la Liddell.


“L'unico che parlò d'amore fu lo stupratore Tarquinio. Non parlò di potere, nazione, patria...”. Con queste parole la regista celebra un finale che si chiude sulle note “You are my destiny..." di Paul Anka...Entra in scena una strana auto di nozze che pare più un carro funebre, con tanto di ghirlande e con una specie di cane alato morto sul tettuccio della macchina. Tutti, performer e registi si muovono sinuosamente sulle note della canzone lasciando a poco a poco la scena. 
Più che uno spettacolo sullo stupro, quello della Liddell pare più un lavoro su un amore altro: indefinibile, inqualificabile, oltre qualsiasi limite convenzionale. Un sentimento che vede Lucrezia e Tarquinio destinati a restare eternamente uniti tra le fiamme dell'inferno. Per questo, il grido invocato a gran voce dalla regista è prima di tutto un urlo di vita che nasce dagli abissi profondi e oscuri della morte. In questo grido la performance offre uno scenario di linguaggi, e simbologie che rimandano a mille universi differenti. Forse troppi, si resta schiacciati, imbambolati, ci si perde in essi, per poi ritrovarsi in quel groviglio dissacrante che la Liddell compone pezzo dopo pezzo come la “sua” visione. Un'immagine che si materializza attraverso i suoi tocchi, le sue grida, i suoi segnali. Cerimoniere del tempo, oltre che di significati, contemplatrice dell'universo che si dispiega via via, la regista in scena appare come una Lucrezia che interroga, svela sé stessa.



Lo spettacolo vive continuamente di piani doppi, triplici, che si sovrappongono: la Liddell si insinua  nelle vesti di Lucrezia, ne esce, accompagna i personaggi, invoca e si fonde in grida assordanti, danza, vive come una creatura aliena le viscere della propria creazione.
Lo spettacolo della Liddell sfugge a ogni tentativo di definizione. Si tratta di una creazione che divide per la sua natura irriverente, per il suo impatto di visioni non mediate, per osare l'indicibile e l'inimmaginabile: uno stupro che abbandona il suo status immutabile di atto contro-natura per divenire un amore altro. Certo, i mezzi per farlo spesso si traducono in dilatazioni forse eccessive, a volte perfino superflue, mescolando troppi elementi e simbologie che si rivelano fuorvianti. Ma il desiderio di interrogare quello stupro riesce a fare di You are my destiny un atto di vita prima che di morte. E la vita torna prepotentemente e ironicamente in scena nei saluti sulle note di “Gloria” di Umberto Tozzi, forse un modo per debellare gli spiriti potenti invocati in scena, accorgendosi così di quei chicchi d'uva sparsi in platea: vero ultimo residuo di una ritualità che sfuma.  


Visto a Modena, VIE Festival il 16.10.2014

Carmen Pedullà


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