Avevamo lasciato la sala del TeTe, a novembre, sperando in una
risposta: perché Barbablù entra in scena, perché in quel preciso momento e
senza apparente motivo?
Sono passati quattro mesi e, a rifletterci bene, una
risposta poteva benissimo non esserci, o meglio, la risposta poteva
tranquillamente risiedere nell’ovvio: Barbablù è la favola dell’uomo che impone
e della donna che subisce, il carattere di ciascuno valga da giustificazione all’agire.
Ma una risposta di questo tipo avrebbe deluso, e i perché sono tanti: non è
questa la poetica di Peso Specifico Teatro e della sua regista-drammaturga Roberta
Spaventa, non è questo il messaggio che anima la rassegna FunamboLa (contenitore scelto
per presentare lo spettacolo) e, soprattutto, non ci sarebbe stata differenza
tra questa e le numerose letture, teatrali e non, che la favola ha avuto. In
sintesi, la domanda sarebbe diventata: a che pro? Francamente, non ne sarebbe
valsa la pena.
Invece la risposta è arrivata, e il lavoro presentato non ha
deluso le attese. Lo studio di novembre fa da zoccolo duro nella prima parte
dello spettacolo: la partitura fisico-emozionale delle due attrici in scena non
cambia, acquista maggiore fluidità grazie anche ai ritmi più ragionati
nell’alternare scatti rabbiosi a momenti di grande intimità tattile, mentre il
dualismo caratteriale fa ancora da binario conduttore nel racconto della
crescita dell’identità femminile tra le pieghe e le catene dell’opinione
comune. Rimane anche il riferimento all’idea della femminilità come habitus, e
le dolci parole del Cantico dei Cantici questa volta nascono direttamente dalle
bocche delle due fanciulle, mentre indossando le loro gonne ampie, con le note dell’Ave Maria di Shubert
che introducono questo momento di alta emozione, ultimo istante di innocenza
prima della definitiva coscienza caratteriale. Lo spazio vive e respira con più
consapevolezza nel descrivere le due diverse entità femminili, e se da una
parte troviamo la donna che subisce dimenandosi (Francesca Iacoviello) e la
continuità del suo movimento, eterno carillon che incarna la circolarità del
male, al centro assistiamo al movimento lineare dell’altra donna, colei che sorride
ingannandosi (Cristina Carbone) e lo spasmo del suo desiderio. A questo punto
inizia a manifestarsi Barbablù: sono piccoli richiami sonori quelli che l’ombra
misteriosa lancia alle due fanciulle, quasi degli ordini espressi in codici
capaci di agire sull’inconscio e di portare i fluidi movimenti della donna
all’automatismo e all’assunzione di posizioni statuarie, a ricordare agnelli
piegati dal sacrificio ma anche samurai pronti alla lotta. Perché è questo il
barlume di luce che dall’ingresso di Barbablù in poi anima lo spettacolo: la
possibilità di lottare, di scegliere, di giocare la propria battaglia d’identificazione
senza cedere agli indici puntati della società e del pensiero comune. Ma tutto
questo si chiarirà agli occhi dello spettatore a tempo debito: siamo ancora nel
buio del bosco, ora, in quel caos di emozioni e paure che vivifica la fase
centrale del cammino di ciascun essere umano, uomo o donna che sia, e le due si
ritrovano schiena a schiena, ginocchia al petto, a rispondere al gioco dei
richiami sonori dell’ombra che le cerca, le attrae, le identifica. Il primo
segnale di presenza tangibile dell’uomo è la parola scritta che definisce il
territorio dell’agire e dà inizio all’opera di persuasione: dei post-it gialli identificano
le porte del castello di Barbablù, e ogni frase riportata è un richiamo che
permette alle due donne di ritrovare la nenia della loro infanzia, la placenta
di conoscenze e luoghi comuni che le ha avvolte nella loro ricerca dell’io e
nel loro modo di pensare l’altro. È questo l’amo che le porta a entrare dentro,
a vivere l’incontro con quest’uomo come si vive il primo amore, con la giusta
dose di innocenza e incoscienza.
Così la donna (un singolare che si sdoppia
nei due personaggi in scena) accetta di varcare la soglia e di continuare la
sua crescita sotto il segno del maschio che domina: è lui a cantare la
canzoncina di buon compleanno, è lui a sorprendere con regali impacchettati e a
incoronare la femminilità con una lunga fila di perle rosse (da sottolineare
come lui regala ma loro legano intorno al collo, perché se è vero che sono gli
altri a metterci al guinzaglio è pur vero che spesso siamo noi a definirci
sempre più vittime) ma è anche lui a spegnere la candelina e a esprimere il
desiderio, perché lui è l’incarnazione del desiderio della donna: è unico,
fuori dalle righe, stravagante, nel suo mondo fatto di suoni e richiami creati
appositamente per dirigere e veicolare l’attenzione, lui è la star, come
testimoniano le lucine rosse da night-varietà che illuminano Barbablù (Santo
Marino) nel suo attimo di gloria eterna. Si gioca all’uccellino in gabbia
vittima dei desideri sadici del gatto che si diverte a regalare piccoli momenti
di gioia, mentre conduce la vittima verso la tortura finale, e tra questi rientra
il dono della scelta. Compare la chiave di Barbablù tra i regali che la
crescita consegna nelle mani della donna, compare la possibilità di scegliere
tra il rischio del sapere o la soppressione del desiderio perché vittima della
paura, si reitera l’archetipo della donna che coglie la mela e condanna al
male. Ma tutto prende un’altra piega: una volta scelto il sapere, entra in
campo la violenza di Barbablù ed entra in scena Michela Rosa. Altra figura di
donna, priva di colorazioni emotive, che accompagna l’uomo nell’espressione
della violenza offrendosi come partner in una danza fatta di cadute e rialzi, e
terminata con uno strappo deciso alla collana di perle, icona perfetta delle
teste mozzate ma soprattutto rottura decisiva nella lettura della fiaba.
L’uomo
si rivela, sotto la maschera perfida di Barbablù, vittima non meno della donna;
vittima di un dover fare, un dover essere, e la partitura cinesica che vive sul
volto di Marino è mappa perfetta che guida nella scoperta del vero senso dello
spettacolo: sono tutti vittime, siamo tutti vittime e, quindi, siamo tutti
possibili eroi capaci di opporci, di reagire. Di fronte al fatto compiuto
l’uomo (o la donna) prende coscienza e coraggio, è arrivato il tempo
dell’abiura: Barbablù viene spogliato dalle sue vesti di cattivo, e le porte si
chiudono su quel mondo da cui si può scappare, da quella realtà che può essere
sconfitta. Ora è tempo della catarsi, ora la Iacoviello e la Carbone sono vestite in
abito da sera mentre la terza donna pone fine al suo ruolo archetipico portando
in scena il simulacro del male, lo sgabello su cui sale l’umanità per essere
giudicata e condannata. È un continuo di dita puntate, giudizi gridati,
dialoghi soffocati dalle urla dell’incomunicabilità. C’è aria di tragedia vera,
di solitudine che non ce la fa a rialzarsi perché schiacciata dal macigno del
male di vivere “secondo il pensiero comune”. C’è una circolarità del male che
impedisce la fuga, che piega i corpi, che storce i visi, che caccia fuori la
bestialità da ogni vittima fino a trasformarla in carnefice, continuando nella
distribuzione casuale dei ruoli. Ecco come finisce Barbablù: nella denuncia del
male sociale che non ha distinzioni sessuali, solo limiti culturali. È una
favola che potrebbe finire bene, se solo si prendesse coscienza dell’importanza
di valicare i confini e di ritrovare un equilibrio individuale.
Visto al Teatro Tempio di Modena il 21 marzo 2014
Elvira Scorza
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