lunedì 20 gennaio 2014

Flamenco come voragine nella morte: Israel Galvan inscena l'eccidio gitanos a Barcellona

Confrontarsi con uno spettacolo di flamenco significa insinuarsi letteralmente tra le feritoie strette e intrecciate di una danza tradizionale, simbolo dell'Andalusia e della Spagna stessa, fatta di movimento, corpo, musica ed espressività che in scena crea un nuovo essere capace di scolpire con il proprio corpo la tessitura sottile e frammentaria di un racconto.



Se poi il titolo dello spettacolo è Lo Real e a librarsi sul palcoscenico sono i tacchetti impazziti di Israel Galvan, uno dei ballerini più talentuosi che la Penisola iberica, ad oggi, possa vantare,  il flamenco in questione non parla solo di tradizione ma si tinge poeticamente di contemporaneo.
Gli occhi dello spettatore, dal divoratore di flamenco, alla persona meno esperta e più profana in materia, si trovano così ipnotizzati da un corpo-calamita che trascende qualsiasi separazione e attrae su di sé ogni piccolo segmento di espressività, fino ad annullarsi completamente in essa.
Si materializza così in scena un corpo che risucchia, ingoia e trasforma tutto quanto lo circonda, toque, (chitarra) jaleo (incitazioni a voce) palmas (il battito delle mani) cante (canto) compresi, fino a risucchiare sé medesimo, fino a scolpire ogni tratto del proprio essere materia viva in flamenco. Fino a divenire “il” flamenco.
Appare così, fin dal primo istante, uno spettacolo che Israel Galvan crea e propone per narrare ciò che forse risulta più difficile raccontare: l'eccidio nazista dei gitanos, antenati dello stesso ballerino.
Un racconto immerso in uno spazio essenziale e minimalista: i musicisti e cantanti sul fondo, separati tra loro da piccole panchette in legno da cui si diramano poche luci, alcuni pannelli in cartone sparsi nella scena, e alcuni oggetti che entrano in contatto, via via durante lo spettacolo, con la danza di Israel Galvan.
Il filo che si annoda nel corpo del bailador diviene dunque quello di una pregunta (domanda) costante che assume via via tratti distinti.


Piccole lanterne si accendono sul fondo della scena e sembrano così evocare l'inizio di una festa-rituale, o forse piuttosto il ricordo di essa, come se questo apparente inizio corrispondesse in realtà a una fine: il pannello recitante la scritta Se corta el arie (Si taglia l'aria) esplicita il presentimento che qualcosa di profondamente devastante sta per accadere.
Nella semioscurità ecco apparire il corpo di Israel Galvan, che nel silenzio più profondo inizia a scolpire linee sagomate in una danza vortice in cui si precipita in fretta. Il suono deciso dei tacchetti delle scarpine da ballo vanno a costituire l'unica partitura musicale, insieme al rumore violento di due fruste fatte schioccare con ritmo sul palco da un musicista. Poco dopo, le fruste vengono sostituite da due pietre che, fatte sfregare l'una contro l'altra, accompagnano e dialogano con la danza frastagliata del ballerino.
Il corpo di Israel inizia a tagliare letteralmente l'aria, insinuandosi negli strappi d'essa, nella voragine che sta per inghiottire tutto.
Ecco il primo e lancinante sguardo sulla morte verso cui sono destinati los gitanos.

Con Un hombre: de los muertos crecen flores (Un uomo: dai morti nascono fiori), il passo immediatamente successivo dello spettacolo, Israel Galvan inizia a dialogare con la morte, ovvero con il destino del suo popolo.


Sulla scena appare la carcassa di un pianoforte: dai suoi tasti distrutti, dagli accordi che non esistono più, si diffonde la polvere della morte stessa, di una sofferenza straziante con cui il ballerino non smette di dialogare, accompagnato, da questo momento in poi, da tutti gli elementi fondanti del flamenco, ovvero cante, toque y chaleo. Senza contare gli altri strumenti, tra cui il clarinetto, il violino, la tromba che danno vita a un linguaggio musicale, che, fondendosi a quello della danza di Israel Galvan, produce una partitura multisensoriale a cui lo spettatore non può sottrarsi.
Partendo da un piccolo tocco stonato del piano suonato con la scarpina da ballo o con la mano, il ballerino cerca di produrre da questo gesto un movimento portato fino all'estremo, affinché ciò che appare agli occhi di tutti come qualcosa di estinto torni ad avere parole, ritorni a essere materia viva nel qui e ora. Ritorni a essere appunto quei flores che Israel Galvan fa nascere dalla disperata ricerca di un contatto con ciò che è stato, dall'interrogarsi frenetico di un perché, dal sentirsi segnati, marchiati da un destino di sterminio e di morte.
Il corpo del ballerino diviene il punto di contatto e il tramite tra la morte e la vita.

Durante lo spettacolo si insinuano anche le storie di due donne gitane: la prima, Una mujer: el cielo tiembla y se cae, (Una donna: il cielo trema e cade) vede una ballerina tracciare con il proprio corpo una danza fatta di linee discontinue. Quelle stesse linee che poi si ritorcono contro di lei, visto che la giovane donna si ritrova materialmente imprigionata nei fili stessi che si diramano dal pianoforte rotto fino al centro della scena. Dopo averli scrutati con sospetto, la tentazione di insinuarsi e danzare con quei fili la porta inevitabilmente a cadere alla fine di questo passo.


La seconda donna, Carmen - dal titolo del passo Carmen, la chince y la pulga (Carmen, la cimice e la pulce) - rappresenta forse l'animo e i caratteri gitani per eccellenza: la ballerina danza attorniata e incitata da cantanti e musicisti mentre lo sfondo che la circonda si tinge di rosso. Il flamenco ritorna qui al suo alveo più tradizionale, segnando all'interno dello spettacolo uno dei passi forse più giocosi.

Si giunge così al momento culmine dello spettacolo, in cui Galvan ritorna sulla scena per la prima e ultima tappa del genocidio de los gitanos: il viaggio verso i campi di sterminio, il viaggio verso la morte.
In scena, quattro colonne giacciono a terra: sono i binari su cui viaggiano i treni dei deportati.
Nella danza successiva Israel  inizialmente si destreggia sui binari, in equilibrio precario, fino a guardare frontalmente, mentre continua nella sua danza vortice, una luce abbagliante, il faro di un treno: la luce che acceca, la luce che segna il destino, il termine ultimo, la tappa di non ritorno.
Il corpo del ballerino scolpisce fin nel più piccolo movimento una danza della morte, in una ricerca continua del contatto con quello che percepisce profondamente come il proprio destino.
E in questa danza serrata, un'altra ballerina, che sembra portare con sé il velo nero della morte, si unisce alla danza di Israel: i due corpi iniziano a inseguirsi, a ricercare un contatto, entrambi microparticelle di un disegno già tracciato, mentre una voce continua a pronunciare freddamente parole in un tedesco senza senso. Mani, gambe, piedi si intrecciano nell'ultimo, straziante fremito di vita.


Una semioscurità ritorna, come nel momento del prologo, ad avvolgere l'intera scena. Tutti, musicisti, cantanti e ballerini si riportano in fila, al centro del palcoscenico, insieme a Israel Galvan. E poi scompaiono oltre un muro che viene innalzato frontalmente nel proscenio da alcuni inservienti di scena. Pochi istanti di luce e poi di nuovo il buio.

Non ci poteva essere epilogo differente, se non quello di una barriera che separa, divide, cela ciò che resta aldilà delle sue costruzioni. Non solo il muro dei campi di concentramento: la materialità dura e sfrenata della criminalità umana. Ma anche il muro dei perché, il muro della ricerca di risposte, il muro dei paradossi con cui sono stati legittimati interi genocidi.
Il muro non esclusivamente del passato ma anche dell’oggi: la ricerca del perché dei mille stati di eccezione che l'umanità è stata ed è in grado di creare e giustificare si scontra inevitabilmente con quegli stessi muri nell'impossibilità di risposte.

Uno spettacolo, quello di Israel Galvan, che traccia in maniera lucida e definita un racconto difficile. Non solo. Nei movimenti sinuosi, negli strabilianti tacchettii impazziti di quello che pare essere un flamenco intessuto sul suo corpo, Israel non descrive semplicemente fatti, ma piuttosto una condizione, un destino, una natura, un modo d'essere che appare profondamente appartenere all'oggi.
L'essere “Israel Galvan”, l'essere profondamente gitano insieme a quella comunità di persone, di anime, di passioni, di dolori, che ha richiamato continuamente sul palco.


Il flamenco del ballerino andaluso riesce inevitabilmente a trasudare, nel più piccolo granello di plasticità, la durezza, la forza, il dolore dello scontrarsi con qualcosa di così grande e terribilmente perverso. Nessuna risposta, certo. Ma resta un corpo, quello di Galvan, materia viva, pura che riunisce su di sé la ricerca di un dialogo continuo tra passato e presente.
Le parole, le lettere, le sillabe si uniscono tutte in quei tacchetti che a tratti paiono divenire magici, nel vortice sfrenato di un flamenco che non solo parla, ma disegna, tratteggia, scolpisce, scopre, insinua. Faticosamente ma con caparbia, coraggio, generosità.
Questa forse rappresenta l'unica e più profonda tra tutte le risposte possibili: un toque, un palmas, un baile, un chaleo. Un mondo che nella sua strabiliante, multiforme capacità espressiva, continua a vibrare e a diffondere un'eco inequivocabilmente gitana.


Per vedere un video con i tratti più salienti dello spettacolo, clicca qui.

Visto al Mercat de Les Flores, Barcellona il 17.01.14

Carmen Pedullà 

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