Se poi il titolo dello spettacolo è Lo Real e
a librarsi sul palcoscenico sono i tacchetti impazziti di Israel Galvan, uno
dei ballerini più talentuosi che la Penisola iberica, ad oggi, possa
vantare, il flamenco in questione non
parla solo di tradizione ma si tinge poeticamente di contemporaneo.
Gli occhi dello spettatore, dal divoratore di
flamenco, alla persona meno esperta e più profana in materia, si trovano così
ipnotizzati da un corpo-calamita che trascende qualsiasi separazione e attrae
su di sé ogni piccolo segmento di espressività, fino ad annullarsi
completamente in essa.
Si materializza così in scena un corpo che
risucchia, ingoia e trasforma tutto quanto lo circonda, toque, (chitarra) jaleo
(incitazioni a voce) palmas (il battito delle mani) cante (canto) compresi,
fino a risucchiare sé medesimo, fino a scolpire ogni tratto del proprio essere
materia viva in flamenco. Fino a divenire “il” flamenco.
Appare così, fin dal primo istante, uno
spettacolo che Israel Galvan crea e propone per narrare ciò che forse risulta
più difficile raccontare: l'eccidio nazista dei gitanos, antenati dello stesso
ballerino.
Un racconto immerso in uno spazio essenziale e
minimalista: i musicisti e cantanti sul fondo, separati tra loro da piccole
panchette in legno da cui si diramano poche luci, alcuni pannelli in cartone
sparsi nella scena, e alcuni oggetti che entrano in contatto, via via durante
lo spettacolo, con la danza di Israel Galvan.
Il filo che si annoda nel corpo del bailador
diviene dunque quello di una pregunta (domanda) costante che assume via via
tratti distinti.
Piccole lanterne si accendono sul fondo della
scena e sembrano così evocare l'inizio di una festa-rituale, o forse piuttosto
il ricordo di essa, come se questo apparente inizio corrispondesse in realtà a
una fine: il pannello recitante la scritta Se corta el arie (Si taglia l'aria)
esplicita il presentimento che qualcosa di profondamente devastante sta per
accadere.
Nella semioscurità ecco apparire il corpo di
Israel Galvan, che nel silenzio più profondo inizia a scolpire linee sagomate
in una danza vortice in cui si precipita in fretta. Il suono deciso dei
tacchetti delle scarpine da ballo vanno a costituire l'unica partitura
musicale, insieme al rumore violento di due fruste fatte schioccare con ritmo
sul palco da un musicista. Poco dopo, le fruste vengono sostituite da due
pietre che, fatte sfregare l'una contro l'altra, accompagnano e dialogano con
la danza frastagliata del ballerino.
Il corpo di Israel inizia a tagliare
letteralmente l'aria, insinuandosi negli strappi d'essa, nella voragine che sta
per inghiottire tutto.
Ecco il primo e lancinante sguardo sulla morte
verso cui sono destinati los gitanos.
Con Un hombre: de los muertos crecen flores
(Un uomo: dai morti nascono fiori), il passo immediatamente successivo dello
spettacolo, Israel Galvan inizia a dialogare con la morte, ovvero con il
destino del suo popolo.
Sulla scena appare la carcassa di un
pianoforte: dai suoi tasti distrutti, dagli accordi che non esistono più, si
diffonde la polvere della morte stessa, di una sofferenza straziante con cui il
ballerino non smette di dialogare, accompagnato, da questo momento in poi, da
tutti gli elementi fondanti del flamenco, ovvero cante, toque y chaleo. Senza
contare gli altri strumenti, tra cui il clarinetto, il violino, la tromba che
danno vita a un linguaggio musicale, che, fondendosi a quello della danza di
Israel Galvan, produce una partitura multisensoriale a cui lo spettatore non
può sottrarsi.
Partendo da un piccolo tocco stonato del piano
suonato con la scarpina da ballo o con la mano, il ballerino cerca di produrre
da questo gesto un movimento portato fino all'estremo, affinché ciò che appare
agli occhi di tutti come qualcosa di estinto torni ad avere parole, ritorni a
essere materia viva nel qui e ora. Ritorni a essere appunto quei flores che Israel
Galvan fa nascere dalla disperata ricerca di un contatto con ciò che è stato,
dall'interrogarsi frenetico di un perché, dal sentirsi segnati, marchiati da un
destino di sterminio e di morte.
Il corpo del ballerino diviene il punto di
contatto e il tramite tra la morte e la vita.
Durante lo spettacolo si insinuano anche le
storie di due donne gitane: la prima, Una mujer: el cielo tiembla y se cae,
(Una donna: il cielo trema e cade) vede una ballerina tracciare con il proprio
corpo una danza fatta di linee discontinue. Quelle stesse linee che poi si
ritorcono contro di lei, visto che la giovane donna si ritrova materialmente
imprigionata nei fili stessi che si diramano dal pianoforte rotto fino al
centro della scena. Dopo averli scrutati con sospetto, la tentazione di
insinuarsi e danzare con quei fili la porta inevitabilmente a cadere alla fine
di questo passo.
La seconda donna, Carmen - dal titolo del
passo Carmen, la chince y la pulga (Carmen, la cimice e la pulce) - rappresenta
forse l'animo e i caratteri gitani per eccellenza: la ballerina danza
attorniata e incitata da cantanti e musicisti mentre lo sfondo che la circonda
si tinge di rosso. Il flamenco ritorna qui al suo alveo più tradizionale,
segnando all'interno dello spettacolo uno dei passi forse più giocosi.
Si giunge così al momento culmine dello
spettacolo, in cui Galvan ritorna sulla scena per la prima e ultima tappa del
genocidio de los gitanos: il viaggio verso i campi di sterminio, il viaggio
verso la morte.
In scena, quattro colonne giacciono a terra:
sono i binari su cui viaggiano i treni dei deportati.
Nella danza successiva Israel inizialmente si destreggia sui binari, in
equilibrio precario, fino a guardare frontalmente, mentre continua nella sua
danza vortice, una luce abbagliante, il faro di un treno: la luce che acceca,
la luce che segna il destino, il termine ultimo, la tappa di non ritorno.
Il corpo del ballerino scolpisce fin nel più
piccolo movimento una danza della morte, in una ricerca continua del contatto
con quello che percepisce profondamente come il proprio destino.
E in questa danza serrata, un'altra ballerina,
che sembra portare con sé il velo nero della morte, si unisce alla danza di
Israel: i due corpi iniziano a inseguirsi, a ricercare un contatto, entrambi microparticelle
di un disegno già tracciato, mentre una voce continua a pronunciare freddamente
parole in un tedesco senza senso. Mani, gambe, piedi si intrecciano
nell'ultimo, straziante fremito di vita.
Una semioscurità ritorna, come nel momento del
prologo, ad avvolgere l'intera scena. Tutti, musicisti, cantanti e ballerini si
riportano in fila, al centro del palcoscenico, insieme a Israel Galvan. E poi
scompaiono oltre un muro che viene innalzato frontalmente nel proscenio da
alcuni inservienti di scena. Pochi istanti di luce e poi di nuovo il buio.
Non ci poteva essere epilogo differente, se
non quello di una barriera che separa, divide, cela ciò che resta aldilà delle
sue costruzioni. Non solo il muro dei campi di concentramento: la materialità
dura e sfrenata della criminalità umana. Ma anche il muro dei perché, il muro
della ricerca di risposte, il muro dei paradossi con cui sono stati legittimati
interi genocidi.
Il muro non esclusivamente del passato ma
anche dell’oggi: la ricerca del perché dei mille stati di eccezione che
l'umanità è stata ed è in grado di creare e giustificare si scontra
inevitabilmente con quegli stessi muri nell'impossibilità di risposte.
Uno spettacolo, quello di Israel Galvan, che
traccia in maniera lucida e definita un racconto difficile. Non solo. Nei
movimenti sinuosi, negli strabilianti tacchettii impazziti di quello che pare
essere un flamenco intessuto sul suo corpo, Israel non descrive semplicemente
fatti, ma piuttosto una condizione, un destino, una natura, un modo d'essere
che appare profondamente appartenere all'oggi.
L'essere “Israel Galvan”, l'essere
profondamente gitano insieme a quella comunità di persone, di anime, di
passioni, di dolori, che ha richiamato continuamente sul palco.
Il flamenco del ballerino andaluso riesce
inevitabilmente a trasudare, nel più piccolo granello di plasticità, la
durezza, la forza, il dolore dello scontrarsi con qualcosa di così grande e
terribilmente perverso. Nessuna risposta, certo. Ma resta un corpo, quello di
Galvan, materia viva, pura che riunisce su di sé la ricerca di un dialogo
continuo tra passato e presente.
Le parole, le lettere, le sillabe si uniscono
tutte in quei tacchetti che a tratti paiono divenire magici, nel vortice
sfrenato di un flamenco che non solo parla, ma disegna, tratteggia, scolpisce,
scopre, insinua. Faticosamente ma con caparbia, coraggio, generosità.
Questa forse rappresenta l'unica e più
profonda tra tutte le risposte possibili: un toque, un palmas, un baile, un chaleo.
Un mondo che nella sua strabiliante, multiforme capacità espressiva, continua a
vibrare e a diffondere un'eco inequivocabilmente gitana.
Carmen Pedullà
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