Fa benee scordate, fa male e penzace. Oppure hai mu pati, mu 'mpari... ma la
lista proseguirebbe all’infinito: all’uscita della piccola sala delle Moline,
il cervello è invaso dalle massime più disparate, massime generate da quella
cultura popolare che si offre nella sua brutalità semplice e affascinante allo
spettatore di Bestie rare. Semi-dramma in lingua calabra. Un attore solo sulla
scena, in compagnia di un’accetta arruzzata, uno sgabellino in legno e una
storia non proprio facile da raccontare, metaforicamente animata dalla grande
massima: chi è senza peccato scagli la prima pietra. La lingua calabra, ballata
di suoni duri orchestrati in melodie antiche, è la formula che ricrea il sapore
di una terra genuina, passionale, a volte accecata dal sole e incapace di
distinguere il bene dal male.
È
accusato di una marachella non proprio bonaria la piccola criatura che, con gli
occhioni tristi di chi è in castigo ingiustamente, ci fissa sin dal nostro
ingresso in sala, un misfatto che gli viene imputato senza processo né
beneficio del dubbio da Micu u vigile, il pazzo del paese che, accecato di
rabbia, con un’accetta gli tenta il collo e con una mano gli torce un braccio.
Ma lo spettatore ride: il racconto non può che scatenare l’ilarità per i toni
con cui è costruito, per i luoghi comuni e le gergalità di cui è arricchito; è uno
spaccato consunto di vita vera quello che ci viene narrato, una quotidianità che
si riconosce antica, passata, o almeno così si spera. La scrittura di Angelo
Colosimo si nutre di una costruzione registica attenta, pulita, che si limita a
“fare un po’ di ordine qua e là, lasciando che parole tutti gli incantesimi del
caso”, come ci racconta Roberto Turchetta nelle note di regia. La circolarità
del male, che il testo snocciola come le perle di un rosario, si traduce in
scelte registiche mirate: è un movimento in tondo quello che guida l’azione di
Colosimo, un cammino che richiama la tastiera di quei telefoni di una volta dove
per comporre la sequenza dei numeri dovevi partire dall’inizio. All’inizio
della storia del piccolo bricconcello di paese c’è una violenza inaudita, rara
forse per chi oggi la vede in scena, e a mano a mano che la storia avanza, i
cerchi di luce che segnano le stazioni della piccola via crucis illuminano
manifestazioni del male sempre più brutali, forme di sfogo per una comunità che
riconosce il perdono solo a chi è ormai morto in croce. Inizia il calvario, lo
guidano centurioni dalle mani grosse e dure in sottogonna nera e croce al collo,
lo animano motti di spirito tra i quali svetta per sarcasmo implicito: “tranquillo,
ca mo ni facimu giustizia”.
È
tutta in questa frase la tempra di Zia Lisa, simulacro dell’immagine
tradizionale della donna: custode del desco, saggia depositaria del credo
cristiano che in quelle terre fa tutt’uno con la legge, lei è la prima immagine
di salvezza per il piccolo Cristo. Ma non risparmia dolori e accuse, quest’angelo
del focolare, perché è vero che le anime dei bambini sono della Madonna, ma è
pure vero che la giustizia, per farsi, ha bisogno di un colpevole. E allora via
per le strade del paese, via per i sei cerchi che segnano il piccolo spazio
scenico, con lo sgabello portato in spalla a mo’ di croce inizia lo spettacolo
per grandi e piccini: venghino, signori, venghino, abbiamo un’altra bestialità
da sottoporre ai vostri occhi e al vostro dileggio, fatene ciò che volete. I
lupi si scagliano sul ricco pasto mentre il poveraccio disperato afferma la sua
innocenza. Lo salva la mano del parroco di paese: il lupo più forte ruba il
pasto al branco per goderselo nell’intimità della propria tana. Il cerchio del
male potrebbe chiudersi qui, in questo climax disperato dove tutti i fili si
riannodano, la salvezza cristiana è fagocitata dalla violenza più inaudita e i
passaggi drammaturgici si increspano nel tragico (“lecca bastardo che per te è
miele e per me è vergogna… io un me sentu nenti”), ma la storia non finisce
così.
Il punto di
chiusura è ben altro: l’omertà intimata dalla Madre, dalle mammelle che nutrono
e consolano, ecco la fine per questo girotondo di mostri nascosti in abiti
talari e donne dalle lacrime dure. Vince la cultura del silenzio, il sentimento
di vergogna, la giustizia popolare che poco sa e poco vuole sapere. Vincono le
bestie rare, perché se pecora diventi lupo ti mangia. Chissà cosa ne sarà della
piccola criatura, chissà se si farà lupo per sopravvivere al branco o morirà da
anima pura. Intanto il cristo è stato flagellato, e la strada della
crocifissione per lui non è poi così lontana.
Bestie rare semi-dramma in lingua calabra
con Angelo
Colosimo
Visto al Teatro delle Moline. Bologna, 28 gennaio 2013
Elvira Scorza
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