All’ombra di candele e incensi, tra musiche sconosciute e gesti incomprensibili, c’è un qualcosa che ti parla, «dei gesti che corrispondono a ignota realtà» (A. Artaud – Il teatro e il suo doppio). È un qualcosa capace di toccare, di smuovere, di rompere quel che a volte si cerca di arginare. Dopo anni di ricerche e battaglie non ancora concluse e lunghe sessioni antropologiche, questo qualcosa ha trovato nel barbiano livello pre-espressivo dell’attore un canone di realtà grazie al quale è possibile parlarne in termini non più utopistici. Ma dopo averne parlato, capire cosa diavolo è questo qualcosa che alimenta la vita dell’attore porta allo stupore; si traduce in un guizzo del pensiero, in una sovrapposizione mentale: la sorpresa di ritrovarsi a pensare ad Arlecchino mentre in scena c’è un attore che si esibisce nel Kathakali.
foto di Chiara Ferrin |
In realtà Mario Barzaghi ci parlerà di Pulcinella,
una volta riprese le sue vesti che sono tutto tranne che occidentali: riemerge
con camicione e pantaloni larghi dal telo colorato che cela il suo ritorno alla
realtà. Ci parla della mimica con cui De Filippo dava vita alla maschera di Pulcinella e ci mostra i
nove tipi di espressione facciale previsti dal Kathakali: è un concerto di
occhi che si muovono, di muscoli che rivendicano la loro autonomia su un volto
che è del tutto identico al tuo ma inspiegabilmente molto più plastico. Lo
sguardo si incanta, la mente viaggia, esplora nell’archivio dei ricordi e crea
assonanze, ritrova sensazioni note. Dopo un viaggio nell’arte Kathakali, Mario
Barzaghi torna uomo, e i suoi occhi ritrovano la dimensione umana: facevano
paura, quegli occhi, incastonati nel rosso acceso che truccava il suo volto. E
la sua figura ritrova le proporzioni quotidiane, libera da imbottiture, lunghe
gonne, manti di pelliccia.
Rimuove gli inserti di carta dal viso, si pulisce
dal cerone rosso, inizia a sbarbarsi. E a parlare, con noi spettatori, di
quello che lui ha appena fatto e noi appena visto.
«Si indossa la maschera per far suonare la persona: persona–persuona. Ora l’ho tolta per mostrare la persona. Il verbo essere fa vibrare
la persona: io Sono/io sòno/io suono. L’etimo di maschera è ignoto, ma l’etimo
di persona è maschera. La maschera viene usata perché fa convogliare meglio e
più lontano le parole: fa persuonare».
Non ci si aspetterebbe di ritrovarlo così, dopo averlo visto
esibirsi. La sua voce è chiara, i suoi gesti tranquilli, posati. Ma tu,
spettatore, ti ritrovi a fissare le sue mani: l’incanto della mudrā è un qualcosa di
magico, per chi non ha esperienza.
È una gioia dei sensi che si rincorrono alla
ricerca del significato, un partecipare della mente che sa di poter capire
qualcosa, da quella danza delle mani codificata e perfetta. Non lo sai, ma
quella mano sul petto ti comunica che lì c’è qualcosa di importante, te lo fa
sentire. E quel gesto rotatorio delle mani ti porta a pensare al fluire del
suono. Entrano in campo esperienze private, ci si affanna a ricercare
l’assonanza tra un linguaggio dei segni conosciuto e l’ignoto: sembra un
sordomuto logorroico, ti dice la tua mente. E te ne sorprendi, perché quel che
tu credevi semplice suggestione ti viene confermata dalla voce ferma dell’attore:
«Il Kathakali racconta storie sacre a spettatori che, un
tempo, erano fedeli; tutto ciò che sulla carta è scritto, l’attore Kathakali lo
traduce con le sue mani».
Così come l’equilibrio delle stasi alla fine di ogni partitura
danzata, la particolarità del danzare attorno allo sgabello, la ripetitività
del gesto: tutto ha un senso, e Barzaghi ce lo regala in una lunga lectio
magistralis, tra parole piene di esperienza e movimenti del corpo pieni di
energia. Finito il rituale di svestizione, l’attore si racconta come atleta del
cuore: l’organicità del suo lavoro, la coscienza del ritmo del respiro, il
legame tra questo e la scoperta dei luoghi del sentimento, il valore del dolore
nell’apprendistato ("Lo sforzo accompagna per simpatia il respiro", diceva il
padre dell’atleta affettivo, Antonin Artuad), la coscienza dell’operatività sul
proprio corpo.
«La differenza tra training e allenamento è questa: la lena
è il respiro e l’allenamento è il lavoro che io faccio per resistere sotto
sforzo e regolarizzare la respirazione. L’arte è un qualcosa che riguarda
l’uomo: pensiamo al suffisso AR: lo ritroviamo in molte parole quali Arterie […]
è il cuore è il centro di tutto, e la persona deve andare a ritmo col cuore: questo
è l’unico modo per persuonare. Bisogna essere accordati (e la parola stessa ci
dice che dobbiamo seguire il ritmo del cuore) Tre elementi trovano unione
nell’arte del Kahtakali: MASCHERA–PERSONA–ARTE . E il cuore è il centro di
tutto».
Ma come ci si accorda con qualcosa che è lontano da noi, con
un’arte come questa che nasce e vive al di là del mare? Questa domanda se la
pone anche l’atleta del cuore:
«C’è qualcosa che ci colpisce, e che va oltre il desiderio
di capire: nel vedere questo personaggio c’è un archetipo che ci colpisce».
Per raccontarci questo archetipo, Barzaghi ci mostra La creazione di Adamo del
Michelangelo. Ci ripropone il dito di Dio che sfiora quello di Adamo: la
scintilla divina che trova il suo tramite nel contatto tra gli indici (e non a
caso l’indice è la summa, il riassunto, è il piccolo che contiene il grande). È
un dettaglio indiscreto nella figura, quell’indice che si tende, è un volersi
mettere in mostra nell’opera: è ciò che guida lo sguardo e racconta il voler
mettere in forma l’uomo per renderlo capace di contenere, senza disperdersi. Allo
stesso modo, l’attore Kathakali deve mettere in forma il personaggio. Allo
stesso modo, l’attore Kathakali lavora al rapporto figura-dettaglio e al valore
che il dettaglio ha.
«Se io devo mettere in forma, il mio allenamento ha un fine
e si sforza nell’atto del creare: lo sforzo dell’allievo Kathakali è prolungato
perché deve arrivare a raggiungere una forma. Poi l’allenamento servirà per
sviluppare quella forma e mantenerla: e così dalla tecnica nascerà la poetica.
Prima di fare, devi capire il perché fai. Dove arriverai. Il tuo sforzo poi si
apre e si dissolve nell’opera d’arte. Nel Kathakali vediamo il personaggio,
nell’opera di Michelangelo vediamo il magnifico: ma in entrambi vi è lo sforzo,
la fatica del levare».
Ma alla fine del suo raccontarsi-raccontare, anche per un
atleta del cuore come Barzaghi torna, prepotente, la ricerca dell’utilità di
tutto questo per un attore:
«Questo lavoro mi ha dato consapevolezza del ritmo, mi ha insegnato
a dosare l’uso dell’energia, mi ha portato ad avere coscienza del lavoro
espressivo e del rapporto tra spazio-tempo. Tutto questo mi ha aiutato a
conoscere il mio livello pre-espressivo. Poi arriverà il passaggio interiore,
arriverò a una fase drammaturgica più approfondita. Ancora oggi, cerco di
capire cosa posso fare io con tutto questo».
E così ritorna dietro al telo colorato, come un artigiano
stanco che nonostante tutto continua a sfregarsi le mani: è in bilico tra
oriente e occidente, come ci ricorda il titolo di questa
dimostrazione-spettacolo, e con l’occidente vuole terminare, con un occidente
di tutto rispetto quale l’Inferno dantesco.
Racconta la genesi del suo
personaggio: un urlatore di versi danteschi che nulla ha a che vedere con i poeti
e i fini dicitori, un Dante agens che vive la continua dualità con il Dante
poeta e subisce la violenza delle sue aggressioni psicologiche, arrivando a
raccontare le visioni e lasciano da parte i personaggi. Si conclude così,
questo pomeriggio all’insegna del transculturalismo, all’ombra di Antonin
Artuad e sotto la guida di Eugenio Barba: con il sapiente equilibrio tra Est e
Ovest.
Teatro dell’Albero - Un atleta del cuore: l’attore in bilico
fra oriente e occidente.
Visto a: Trasparenze – Atelier della scena contemporanea
(Modena) presso lo spazio Teatro dei Segni il 5 ottobre 2013.
Elvira Scorza
Mario Barzaghi, un attore vero e integro, nel senso che non ha mai tradito la sua ricerca. Ha vissuto coerentemente con essa ed è bellissimo ritrovarlo oggi ancora così profondamente autentico.
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