Per i non addetti ai lavori, Obres, uno spettacolo della compagnia franco-catalana di circo contemporaneo Barò d'Evel Cirk Cia, appare fin dal primo istante come un cantiere a cielo aperto, con l'andirivieni di operai che, come automi impazziti, comunicano tramite walkie-talkie, rincorrendosi in uno spazio costellato di cartelli che segnalano le “obres” in corso. Ogni angolo trasuda terra, polvere. Ogni angolo trasuda l'essenza dell'accadere: gli spettatori si ritrovano immersi nelle profondità del processo creativo, che si preannuncia essere un lungo viaggio.
Il pubblico, con ancora il biglietto d'ingresso nella mano e
nell'altra il tagliandino del percorso itinerante, nel momento in cui varca la
soglia dell'immenso atrio del Mercat de Las Flors, è già divenuto parte di quel
processo frenetico senza nemmeno rendersene conto; micro particella del
rincorrersi dei martelli, delle tenaglie, delle campane che disorientano
continuamente lo sguardo dello spettatore. Uno sguardo che lo trasforma in un
casuale visitatore che, aldilà delle impalcature e delle ultime verniciate alle
pareti, inizia a costruire a sua
volta, tra le zappe, le pale, i rastrelli e le vanghe, il proprio viaggio.
Ecco svelato il primo tassello indispensabile per poter
partire lungo i livelli stratificati del cantiere: ovunque, lavori in corso.
La meta, aldilà delle apparenze, non è quella del circo fatto di acrobazie, di
salti, e di un uso selvaggio di animali. È un viaggio che si racconta nel compierlo, che
parla, sussurra, si apre a mille linguaggi differenti: la danza, i suoni, le
parole, la pittura. Mondi equidistanti che si sfiorano reciprocamente in quello
che diviene un percorso sonoro, figurativo, emozionale,
riportando tutti i visitatori al loro stato più primitivo: quello
animale.
L'attesa. Questo il primo momento in cui si trovano
completamente immersi gli spettatori.
L'attesa necessaria per capire il proprio posto nello spazio:
non a caso all'ingresso, viene
consegnato un tagliandino per essere divisi in piccoli gruppi. Ciascuno deve seguire il proprio segnale: rastrello, pala, vanga o
zappa?
E poi di nuovo l'attesa nel
vedere un primo reale inizio, oltre la frenesia dei lavori in corso.
Il punto zero da cui partire proviene dall’elemento più
basilare, la terra: da essa, all'interno di una voragine in una costruzione di
legno posta al centro dell'atrio, spunta la testa di un uomo, che si risveglia
ed inizia a ballare insieme ad altri addetti ai lavori che ritornano poi con
lui nell'oscurità degli abissi sotterranei.
Ci cadono dentro tutti, rispuntano poi da laggiù con i
vestiti, i capelli, le bocche che trasudano terra.
I corpi dei ballerini si decostruiscono nei movimenti,
lasciandosi attraversare dalla pesante materialità della terra, fondendosi in essa, in quegli stessi granelli che, scossi dai loro ondeggi, zampillano
in aria.
Una voce tremendamente acuta sembra provenire da quello stesso buco
nero che risucchia i corpi e li riporta alla luce: accompagna la loro scomposizione, fondendosi con i
rumori freddi dei martelli che non smettono di scolpire il tempo.
All'improvviso i ballerini sembrano accorgersi della presenza
di alcuni estranei e così si affrettano affinché ciascun gruppo possa iniziare
il proprio viaggio.
Seguendo il lampeggiante rosso, prende il via l'ascesa
all'interno dei meandri del cantiere.
Si sale lungo scale a chiocciola, si attraversano lunghi
corridoi, tutti costellati da pitture
bianche, disegni (forme di emoticons
tristi o felici)
o scritte (sì o
no).
Prima tappa, la danza di una donna con la testa di cavallo o
meglio, la danza di un cavallo con il corpo da donna. Nessuna musica accompagna
il trotto, il chinarsi, lo sdraiarsi, l'ondeggiarsi dell'animale. Solo tante,
continue gocce d'acqua scandiscono
il ritmo della danza,
cadendo in tanti piccoli catini che delimitano lo spazio scenico. Prima lente,
poi veloci, fino ad arrestarsi, solo per un attimo, brutalmente. Segnano
l'incedere del tempo, un tempo che unisce uomo e animale e che riporta chi
osserva ad entrare acutamente e profondamente in quel ritmo incalzante.
Le luci scompaiono ed allora le gocce diventano una cascata
scrosciante che invita il pubblico a rialzarsi e
a proseguire il proprio viaggio.
Si continua così a salire lungo le gradinate, accompagnati, durante
il percorso, da un'unica goccia che dal soffitto cade giù
fino all'atrio della scalinata. Si entra così in un altro mondo animale, quello
delle scimmie: infatti una ballerina, aggrappata ad un palo al centro della
sala, se ne sta attonita, ad osservare il pubblico. Inizia a scendere, gambe
penzoloni verso il nostro mondo umano, non staccando mai la mano dalla coda dei
capelli. Si origina una vera e propria lotta tra il corpo della ballerina e lo
spazio che la circonda: movimenti estremi, acrobazie al limite dell'improbabile
si sviluppano intorno a quella mano che non si può e non si vuole staccare
dalla coda. La ballerina rappresenta un conflitto tra il mondo umano e quello animale, che
diventa ancora più visibile nel momento in cui finisce la sua performance, uscendo
dalla scena con un uccellino sulla testa.
Arriva il momento di essere trascinati da un'altra danza.
Questa volta a piroettare sono i pennelli degli stessi addetti ai lavori che
disegnano su uno schermo bianco una storia, la raccontano. La narrano dietro il
telo, oltre i tratteggi e le linee che si definiscono sulla tela. Disegnano
prima il cervello di un uomo, dai mille e confusi meandri, e di fronte a lui
un'altra faccia dalla cui bocca esce una corda che la collega al cervello. Un
dissidio forte, profondo, che sembra rimandare alle voci e ai conflitti umani
interiori che prendono forma, materializzandosi in una duplice personalità
dell'individuo. I pennelli continuano a cancellare parti dei due visi fino a
non lasciarne più traccia, aldilà di una cascata di zampilli marroni che
disegnano una danza, una lotta tra uomini. Dietro al telo si intravedono le
ombre degli addetti ai lavori che vanno a fondersi con le immagini sullo
schermo. Si assiste così alla pittura di una danza che si fa materia viva,
composta di immagini che ondeggiano
sinuosamente.
Si inizia a scendere, e questa volta riappare un addetto ai
lavori che comunica tramite walkie-talkie, e raccomanda ad un altro operaio di
non lasciare gli animali soli e fare in modo che non si perdano sennò
soffriranno. Il riferimento ironico al pubblico come reale animale dello
spettacolo viene da questo momento esplicitato chiaramente.
Così il gregge di
uomini continua a seguire la luce lampeggiante rossa, si esce dall'edificio del
Mercat e ci si ritrova di fronte ad un cavallo reale. L’animale guida ed
accompagna i visitatori fino all'ingresso di una nuova tappa: un lungo
corridoio fatto di carta, dalle mille forme e colori. Camminando lungo il
percorso si incontra Vincenzo, un uomo semi sotterrato nella terra. Spiega come
il cervello dell'uomo sia molto simile ad un cavolfiore e come l'essere umano
si ostini a non trasformare le proprie azioni, a non
muoversi. Benché si rifiuti, arriverà ugualmente a compiere un cambiamento,
trascinato da tutto quanto lo circonda. Sarà il vento a rompere l'immobilità.
Un'elica enorme inizia infatti a sbuffare e i visitatori si
lasciano andare, passo dopo passo, alla meta successiva.
Tutto quello che ci si aspetta, arrivando in un'arena, è di
compiere l'ultima tappa, questa volta tutti riuniti in un unico grande gruppo.
Si assiste così ad una danza corale, tra ballerini e cavallo,
dove quest'ultimo detta il ritmo dei movimenti degli altri. Tutti a seguire lo
stesso movimento, dove a tratti non si riesce a distinguere chi sia l'animale e
chi l'uomo, in un armonioso equilibrio, sempre a stretto contatto con la terra
che resta inizio e fine dell'itinerario.
I ballerini lasciano la scena, e così si ritorna nell'atrio
principale del Mercat, dove si materializza l'epilogo dello spettacolo, tra
musiche e balli: uno degli addetti ai lavori disegna su alcuni cartelli
uomini-cavallo che zappano la terra. Si
celebra così il compimento di un lungo viaggio.
Obres squarcia
sicuramente il Mercat de las Flors: il libero sfogo di una creatività finora
impensabile tenta di ricontestualizzare
la posizione dello spettatore prima e dell'individuo poi. Ironico, pungente lo
sguardo dei registi, Blai Mateu e Camille Decourtye, nei confronti del pubblico
e più in generale della società: costretti e condannati a seguire il vento, gli
spettatori sono incapaci di opporsi e di reagire per modificare il corso degli
eventi, tali e quali a un gregge belante.
L'itinerario diviene così una lunga e profonda metafora
dell'oggi, dell'imbruttimento di una società preda di sé stessa, della voragine
dei consumi, di uomini incapaci di modificare il ritmo del tempo, schiavi
d'esso e di sé medesimi.
Un ritorno all'animalità che non vuole essere proposta come
una cosa meschina, ma anzi, come una tra le poche àncore di salvezza. Il
proposito della compagnia è quindi fin troppo esplicito e forse un po’ banale:
se l’uomo risulta essere il più animale tra gli animali, meglio cercare di
ritrovare l’innocenza e la purezza dei veri animali.
Ma il gruppo Barò D'Evel Cirk Cia riesce a condurre il
proprio discorso con un inizio ed una fine credibili, riconducendo tutto alla
natura delle cose, del tempo, dello spazio che si racchiudono nella creatività
del teatro. E della vita, in sostanza.
Notevole il lavoro artistico, dove danza, pittura, ritmo
sonoro, rapporto in sinergia con gli animali riescono a far rodare in maniera
efficace gli ingranaggi di una macchina complessa.
Scenicamente, appare chiara la frammentarietà dei corpi dei
ballerini, uniti dalla necessità di farsi particelle piccole, impercettibili a
stretto contatto con le radici della terra: le stesse da cui troviamo origine, da
cui fuggiamo e a cui torniamo sempre anelanti di curiosità rispetto a
quell'oscurità che cela ciò che non si può e non si riesce a vedere.
Un'illuminante immagine degli infiniti viaggi, continuamente
in obres, in costruzione, che si
compiono nel teatro e nella vita. Vengono in mente i versi di una canzone di NiccolòFabi “… E in mezzo c'è tutto il resto, e tutto il resto è silenziosamente
costruire...”.
Visto al Mercat de Las Flors, Barcellona il 15 dicembre 2013
Carmen Pedullà
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